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Il Matrimonio della Zeza

29 Novembre 2012 di Redazione-FB Lascia un commento

C’erano i confetti e c’erano i pasticcini, c’era un gran viavai di donne e di uomini, di pettini e di pennelli per il trucco. Era come un treno che corre veloce che non fa fermate che deve arrivare alla stazione di arrivo e per cui ogni luogo attraversato ha un suo perché. C’era l’aria tesa dei grandi avvenimenti, delle giornate importanti quelle che segnano la vita che poi la sera, anche dopo mesi, quando vai a dormire, quando ti distrai dal quotidiano, tornano e sorridi e sei felice di averle vissute. Avevo i tacchi alti e le strade erano scomode, strade antiche, strade che molto e tanto hanno da raccontare strade che hanno visto e vissuto i precedenti, che sole possono raccontare da dove quest’aria di festa provenga, da quali pensieri da quali dolori e disattenzioni del mondo. I sampietrini spingevano malvagiamente contro la suola delle scarpe, spingevano e ad ogni passo era una smorfia di dolore, ad ogni passo però era un angolo della città che tanto ha dato da cui tanti hanno preso e che era ancora una volta teatro e palcoscenico di un pezzo di universo che raramente si vive in prima persona. È arrivata la carrozza con i cavalli neri, mentre le macchine dietro suonavano mentre gli ospiti si accalcavano ed era un continuo di luci di scatti di foto rubate di pose che mai più forse per alcuni potranno ripetersi. Il sole era nascosto ma, ma non pioveva. Ad un tratto l’applauso, ad un certo punto i confetti, la sposa con il suo velo bianco abbassato sul volto è scesa dalle scale ripide di una casa al primo piano; la sposa che non sorrideva perché troppo tesa, troppo emozionata; la sposa con un bouquet di rose da cui spuntavano diversi fiori che sapevano di altro che la dicevano lunga sul perché e sul percome. Dietro, lo sposo, e la mamma e i testimoni, ognuno con un sorriso nell’anima ognuno con un pensiero di favola. Sono saliti sulla carrozza. Il sagrato della chiesa era spazioso, lì le foto, il brindisi, lo sguardo dei curiosi che non capivano che invidiavano, che avrebbero voluto. La mamma della sposa era altera, imponente nel suo abito elegante, con il trucco pesante, con le scarpe alte, impettita, con lo sguardo severo che nasconde la dolcezza, con i sogni che sono stati stropicciati ma che non sono finiti che continuano a vivere e camminare a prendere forma e materia. Da lontano ho visto un cappello, un cappello bellissimo di quelli che fanno invidia, del genere che non si trovano nelle vetrine dozzinali del centro città, il cappello e la sua forma, il cappello e il suo mondo. Era fiore, era pensiero, era un fiore aperto e magnifico così come erano aperti i pensieri al mondo; il cappello che da solo era l’abito, il cappello che era un segno distintivo, in fondo lei era la testimone era la “commara”, quella che deve impegnarsi, che deve testimoniare l’amore, quell’amore e quelle promesse di amore che le vengono affidate da qual momento in poi. L’abito era nero e le perline e i luccichii non brillavano quanto lo sguardo, quanto il sorriso, quanto la voglia e la soddisfazione di esserci. Dietro la testimone erano le damigelle nella loro giovinezza nei loro abiti lunghi e azzurri, che ricordavano due modelle di un quadro rinascimentale, due immagini della gaiezza e della vita ben spesa tra sorrisi e moti del cuore, con un’orchidea tra i capelli annodati, con il sorriso che era più prezioso di ogni orchidea preziosa.

Continuavano a fotografare, continuava l’arrivo di amici e di risate. In un angolo del ristorante nel parco con il prato inumidito dalla pioggia e in cui si impigliavano i tacchi delle scarpe, c’era una cascata che scrosciava, che era acqua e che era vita e con il rumore della vita festeggiava insieme a noi la sposa e lo sposo, il matrimonio, e l’unione che sono di più, che non sono solo nozze ma sono trionfo ma sono speranza. I sentimenti si sentono e si vedono dipinti sui volti, arruffati e felici. E le foto e le pose, e le gambe alte sui tacchi e i capelli annodati intrecciati, e l’emozione di una borsa nuova e di una stola di visone, che sono solo cose ma che rappresentano un traguardo, che sono pensieri e desideri che per quel giorno sono chi le indossa. L’ho vista che camminava di schiena, sinuosa, con i capelli rossi legati in alto, con gli orecchini vistosi con le spalle magre e l’aria di chi lo sa, l’ho vista e ho sorriso, l’ho vista e sapevo che non poteva essere diversamente. Camminava e sembrava non guardasse nessuno se non la strada che le stava davanti, camminava e sembrava ma non era, perché c’erano i pensieri e c’era la voglia di vedere e di farsi vedere, perché lei era la sorella della sposa, lei bella tra le belle. Eravamo lì e sembrava racconto, vedevamo i calici che si alzavano ed eravamo felici di esserci. In fondo i matrimoni servono a questo, in fondo se ci si riunisce è per dire che si è felici di condividere e di vivere. E la gente era felice di esserci e tutti sorridevano alla sposa e allo sposo. Oh lo sposo…nel suo abito gessato, nei suo occhi scuri e il sorriso di chi molto ha visto. Lo sposo e la sposa che erano lì e quasi non ci credevano, la sposa e lo sposo ancora una volta, insieme per un giorno, per sempre nel pensiero e nei ricordi. Non può raccontarsi una giornata, non possono raccontarsi le settimane di attese e di preparazione di dubbi e di domande. Non si dicono i momenti e i pensieri e i brividi, quelli li sa chi li vive e non si possono raccontare, ma si può dire dell’aria che brillava come gli anelli e come le collane delle occasioni importanti, come i microfoni e come gli amici che davano quello che avevano, che suonavano che cantavano e che danzavano per onorare. Come i tamburi che suonavano perché qui non è festa senza un tamburo che batte. C’erano i bimbi e i matrimoni con i bimbi riempiono gli occhi, bimbe dai lungi capelli biondi, bimbe con gli occhi azzurri sulla pelle di neonato che era un quadro che non si dimentica che si vuole rivedere per viverlo ancora per riempirsene gli occhi. Gli amici e il pranzo e i brindisi e le risate. Continuava la mamma a chiedersi e la testimone a raccontare. Ed erano due erano tre o quattro ma un solo unico pensiero la bellezza di un momento. E gli anelli e la torta nuziale, e gli ospiti che ballano e ridono e sorridono che ascoltano parole che assistono a spettacoli che sono piccole scenette che raccontano la vita che rendono partecipe che sì sono esasperazioni della vita ma sono la vita stessa. E parole e risate e gambe scoperte e intimità appena accennate, ma vissute ma attese e irripetibili. In questa giornata eccezionale nella eccezionalità delle cose c’era l’uomo con il cilindro e il papillon, c’era l’amica e le amiche che sono tutto in un matrimonio che sanno quasi come se fosse loro, che capiscono e che impediscono. C’era anche l’eccentricità ma era gioia a vederla, e parole che non si odono spesso, che fanno sorridere che alleggeriscono la vita, che quando le senti capisci che fai parte di un mondo che in nessuna parte dell’universo potrai più trovare. Aveva iniziato a piovere ma era una pioggia scrosciante rumorosa come la sala, come le risate, come una festa ben riuscita, dove il lavoro e i giorni che l’hanno preceduta sono stati ripagati e ben spesi, che poi alla sera quando ti siedi e le gambe sono dolenti, quando i rumori e le risate sono lontane, quando non c’è più il velo della sposa che svolazza e che riempie e neanche il cappello della testimone e l’imponenza della mamma quando tutto questo è diventato ricordo vorresti riviverlo solo un altro momento, solo uno per strappare un altro sorriso, l’ultimo prima che tutto finisca; l’ultimo prima che le foto diventino tali e non più momento vissuto ma ricordo di una festa che non era solo un matrimonio che non era solo un momento speciale ma era di più. Era Ciro a cui tremavano le gambe mentre scendeva le scale con il suo abito bianco e le spalle scoperte, con i nastri intrecciati sulla schiena con tante perline e il velo che si allungava con uno strascico di fiori e di pizzo; era Bruno che era orgoglioso che era emozionato, che era quello che voleva, che dall’alto osservava e guardava da lontano, viveva la gente che guardava; erano Gerardo e Massimo, il primo con il suo cappello da invidia e i suoi occhi birichini che hanno svegliato l’ilarità di molti, che li ha fatti si ridere ma che ha dimostrato molto e che ancora molto c’è da dire e che lo si può fare scherzando e sdrammatizzando, e Massimo con la sua bellezza e il suo corpo statuario, con i modi gentili che spesso che forse, che mai vorremmo perdere. Ma sono state anche le damigelle Oscar e Salvatore con i capelli lunghi e i vestiti che sembravano ali, che volavano lontano, che attraversavano il mondo per giungere al sogno, per essere ancora e per una volta liberi come il vento che attraversava quegli abiti azzurri.

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