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Intervista a Ettore Castagna

16 Novembre 2012 di Redazione-FB Lascia un commento

Etnomusicologo? No grazie! ovvero da Bergamo a Palanca, con amore

Chi è Ettore Castagna? Ogni definizione che si cerca di appiopparti si rivela insoddisfacente, al punto che anche il sottoscritto -che pure con le parole dovrebbe essere a proprio agio- si trova in difficoltà. Musicista, docente, scrittore, etnomusicologo, antropologo, agitatore culturale, cuoco: chi più ne ha, più ne metta… E se arrischiassimo un banale ma forse efficace “intellettuale”? Una figura che nel folk italiano, ammesso che questa definizione abbia un senso, non si incontra poi così spesso. Ti riconosceresti, ovviamente con beneficio d’inventario, in questa categoria? Oppure ne ripudieresti con sdegno l’appartenenza?

Le definizioni non servono a nulla eppure passiamo le giornate a rincorrerne qualcuna. Sembra la famosa prima volta nel sesso. Dopo che è successa ti chiedi disperatamente … ma perché proprio a me? Chiamatemi come volete … ma non etnomusicologo. Sono pochi, cattivi e molto, molto litigiosi. Io sono antropologo. Mi pare. Se mi dai tempo cerco cosa vuol dire su una garzantina, faccio il copia e incolla e ti dico che significa.

Da anni risiedi a Bergamo, forse il luogo più diverso dalla tua Calabria esistente al mondo. Quali le contraddizioni di una scelta, semmai ce ne fossero? E la decisione di nordizzarti, al tempo, fu presa d’impulso o fu meditata a lungo?

Con mia moglie che è bergamasca parliamo abitualmente in inglese. Con il tempo ci si rassegna ai modi di vita di voi bianchi. Per fortuna ricevo periodicamente casse di frutta dal Kalabristan. A febbraio arance di tutti i tipi, cedri, limoncelle, una meraviglia di profumi. Stasera mi sono arrivati dieci chili di melograni da Locri, melograni veri non quelli di quella banda di comunisti dell’Esselunga. Sono qui come tutti per lavoro e da molto prima che la ‘ndrangheta si comprasse tutti quei bei centri commerciali stranamente non notata dagli ariani locali. Che vuoi che ti dica. Alla fine ubi bene, ibi patria.

Tu sei di Catanzaro. Cosa vuol dire aver avuto i propri natali in questa provincia proprio adesso che le province dovrebbero venire ridimensionate? Un catanzarese è più o meno calabrese di un reggino o di un vibonese? O il calabrese è un modello da esportazione standard?

Il bello dei calabresi è che siamo figli della nostra storia. Qualcuno dice figli di altro ma lasciamo perdere. Sono millenni che siamo un laboratorio seminale genetico: cosa volevi? il calabrese unico tipo Gelmini? Non c’è, non esiste. La Calabria una volta era terra di piccoli paesi, campanili, pastori e contadini. Ogni vallone ed ogni timpa era un modo e un mondo. Negli ultimi quarant’anni il cemento e lo sviluppo senza progresso hanno omogeneizzato tante cose ma due calabresi che la pensano uguale ancora non esistono. Le province sono morte? Ah, ci vo’ pacenza figghiu!

Alcuni anni fa, con il progetto Nistanimèra, hai realizzato un disco praticamente perfetto; intelligente, divertente, ben architettato, ben suonato: “Chorè”. Che ne è stato di questo progetto? Si può dire che non abbia avuto la fortuna che avrebbe meritato? E quanto di Nistanimèra c’è nel tuo lavoro successivo, quello che va sotto il nome di Antiche Ferrovie Calabro-Lucane?

Nistamimera era un progetto a termine. Dopo alcuni anni in piena amicizia e come avevamo concordato il gruppo si è sciolto. Era un supergruppo. Non era facile tenere tutti quei leader insieme a lungo. Ma io ho un difetto. Anzi due. Quando suono mi devo divertire e quello che suono mi deve piacere. Ho sempre suonato a modo mio. Se vende e se non vende non me ne importa. La pensavo così ai tempi del Re Niliu, col progetto Nistanimera e la penso pure così oggi con AFCL. Prima di tutto good friends good music e poi il suono. Il suono deve essere quello, le sonorità devono essere quelle. Non mi piego, non mi omologo. Sono maxitosto. Sì, Nistamimera era un disco perfetto. La stampa inglese ci elogiò, quella greca pure, dall’America fioccavano e-mail di complimenti, la stampa italiana disse cosi ottimissime. Ma con Nistanimera suonammo poco, molto poco. C’è chi disse che si sparse subito la voce che eravamo “cari” e che già allora si preferivano i gruppi di tarantella al chilo. Ma la verità non l’ho mai capita. Certo è che in Italia la qualità è una colpa. Mi sto rifacendo con AFCL, i miei musicisti sono cambiati ma il modo di progettare il suono è uguale. Suoniamo parecchio in Italia e all’estero. Non mi chiedere perchè AFCL sì e Nistanimera no…

Di recente, su Facebook, ti sei tolto qualche sassolino dalle scarpe riguardo alla lira calabrese, lo strumento che forse più ha suscitato il tuo interesse negli ultimi decenni. Ti va di raccontarci il perché e il come di questa provocazione? E quanto pensi che ciò che accade in Calabria sia universalizzabile a livello nazionale?

La moda è moda, il pop è pop. Oggi si suona solo pop. Di quello che suonavano i nostri vecchi a nessuno importa nulla. Importa il successo, il palco coi fumogeni, l’amplificazione figa, l’immagine del musicista pure se non sai suonare. Le modalità del pop e del mercato hanno spazzato via tutto. Si canta e si suona pop con la mentalità del pop. Sin qui niente di male. I gusti sono gusti, figuriamoci. Fa specie però la mistificazione. L’etichetta dell’autentico e del tradizionale appioppata sul prodotto di consumo. Tutta questa ipocrisia obbligatoria senza la quale la ruota non gira, l’orso non balla e il concerto non si fa è veramente di una miseria culturale tale di cui pagheremo il prezzo fra qualche anno. Forse lo stiamo pagando già ora. Facebook si divide in faide assurde fra chi si ritiene tradizionalista e chi dice ma lasciateci divertire. Nel frattempo fuori dal virtuale e dagli avatar un intero mondo culturale con la sua diversità e la sua bellezza è morto e noi abbiamo perso il treno, abbiamo perso l’opportunità di fare musica bella e diversa. Non la tarantella del Gargano suonata male con la voce alla Fabri Fibra.

Per anni, soprattutto a Cataforìo ma anche altrove, hai organizzato e condotto in porto incontri didattici che nella memoria di chi vi ha partecipato hanno lasciato un grande segno positivo. Che ne è rimasto di quella esperienza sul territorio e cosa invece avrebbe potuto essere e non è stato?

Faccio l’antropologo. Per me è normale mettermi in gioco in relazione a una comunità e a un territorio. L’ho fatto in ambito musicale ma l’ho fatto in vari settori della mia ricerca in altri punti del Mediterraneo. Non posso pretendere che le cose vadano sempre come piace a me. Esperienze come U Stegg a Cataforio o il festival Paleariza che ho diretto per tredici anni sono state esperienze belle. A un certo punto le comunità, i territori diventano grandi e debbono camminare da soli. Poi se quello che fa il figlio piace o non piace a papà è tutto un altro discorso. Di sicuro credo di aver costruito. Forse non sono piaciuto a tutti. Ma nella vita per ogni cosa ci vuole pazienza e amore abbondante come diceva mastru Petru Miceli, un grande della zampogna a paru.

Fra la abbondante iconografia che illustra la tua presenza su Facebook, uno spazio inatteso (almeno per chi non si diletta di calcio) è dedicato a Massimo Palanca. Cosa daresti per essere lui e rivivere in prima persona l’epopea del Catanzaro in serie A?

Palanca è stato per Catanzaro come Che Guevara per Cuba. Un uomo gracile con un piede 36 ma con il record mondiale di gol dalla bandierina, addirittura tredici. L’immagine di un campione che sceglie la provincia, uno che sceglie di vincere per chi perde, per una squadra senza doping ma rinforzata a provola silana e capocolli con la lacrima. Era tutto troppo bello e troppo umano. Cose che non vanno più di moda oggi. I ricordi così sono un patrimonio divertente per la memoria. Una Calabria diversa mai apparsa nella cronaca e nei luoghi comuni. Te l’ho detto, sono cose che voi bianchi non potete capire.

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