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CROSSROADS IN ITALIA: ALESSANDRO PORTELLI RACCONTA A FOLK BULLETIN

25 Febbraio 2017 di Redazione-FB Lascia un commento

di Nicola Cossar

Crossroads non è soltanto un classico del blues, ma oggi è anche una interessante collana editoriale che si propone di testimoniare l’incontro tra le culture del mondo. Due i volumi discografici (cd più un ricco libretto) già pubblicati dalla Nota di Valter Colle, importante realtà friulana da tanti anni impegnata in una straordinaria opera di raccolta documentale, soprattutto a livello italiano. Ne abbiamo parlato con il direttore della collana, Alessandro Portelli, notissimo docente universitario, scrittore e critico musicale.

FB – Ragionando sulle culture, un tempo si usava l’espressione voci dal mondo. Oggi il mondo cammina e, come hai avuto modo di scrivere, le culture hanno messo le ali alle radici, sono semi di futuro. E’ la storia che si ripete o viviamo davvero un epocale momento di cambiamento decisivo per l’umanità?

AP – Io sono sempre cauto quando si parla di cose epocali, ma, certo, soprattutto per Paesi come il nostro, è un cambiamento radicale. Le voci non vengono più dal mondo, ma sono voci del mondo che stanno già qui. La categoria che si sta esaurendo, credo, è quella dell’esotico che spesso sta sotto il discorso della world music. A meno che non accettiamo che il mondo ce l’abbiamo a casa.

FB – La collana Crossroads – che riteniamo molto preziosa -, dando voce a tante culture, a tanti percorsi – artistici e popolari al contempo -, va in questa direzione di raccolta documentaria, di data base e testimonianza o si propone qualcosa di più articolato e, perché no, di più ambizioso?

AP – Direi che raccogliere consocenze e farle circolare è sempre il punto di partenza per ambizioni più grandi, che magari non si realizzano ma ispirano già il lavoro di documentazione. L’idea è che possano contribuire a cambiare un poco i rapporti sociali rendendoci più consapevoli della complessità di quello che siamo e che stiamo diventando. Comunque: più che dare voce, io direi che quello che facciamo è ricevere voce, provare ad amplificarla, e offrire ascolto.

FB – Il Mediterraneo, il Mare Nostrum, per secoli è stato un’autostrada per culture, lingue e commerci. Oggi se ne parla fin troppo spesso come di un’autostrada che uccide ogni speranza. Che ne pensi?

AP – Le strade e le autostrade sono sempre tutte e due le cose: luoghi di speranza e luoghi di disastri. Non ci sarebbero i disastri se la speranza non inducesse le persone a mettersi in cammino. E ce ne sarebbero molti di meno se alla fine della strada non si trovassero porte sbarrate. E il Mediterraneo non è nostro, è di tutti.

FB  – Parliamo di sfide. Nel primo disco della collana, dall’emblematico titolo We are not going back, sono state raccolte musiche migranti di resistenza, orgoglio e memoria. Sono i canti della nuova Italia provenienti da India, Bangladesh, Afghanistan, Filippine, Nigeria, Somalia, Etiopia, Mauritania, Senegal, Turchia curda, Romania, Ecuador. Noi italiani, europei, occidentali abbiamo un po’ dimenticato, o colpevolmente distorto, l’orgoglio dell’appartenenza. Ora, grazie ai migranti, agli ultimi che arrivano qui, comprendiamo di aver buttato via, di aver sacrificato sull’altare del progresso, del benessere, del mondo globale buona parte di noi stessi, e sicuramente la più bella: il suono dell’identità. Ti ricordi certamente il famoso lavoro sul campo fatto da tanti pionieri dell’etnomusicologia, da Lomax a Leydi, tanto per citare due grandissimi. Non è forse il caso che anche qui, nell’Italia del terzo millennio, si torni ancora sul campo per irrobustire una cultura che si sta diluendo in altre che spesso appaiono più forti e coese della nostra?

AP – Io credo che uno dei danni del folklorismo romantico – oggi ripercorso dal folklorismo leghista – sia stato quello di usare il folklore come luogo deputato di identità fissate, e fra l’altro tutte separate le une dalle altre. In realtà, le culture popolari e orali sono sempre state aperte, contaminate, tutt’altro che identitarie. Pensiamo a una canzone come Il testamento dell’avvelenato, che nasce forse in Veneto nel XVI secolo: la ritroviamo non solo in Calabria o in Umbria, ma in Irlanda, Scozia, Inghilterra, Stati Uniti, e arriva fino a Bob Dylan. A chi appartiene? Quale identità definisce? O non sarà proprio un luogo di condivisione fluida, aperta, flessibile? In nome dell’identità (occidentale – non solo, ma è nell’occidente che parlo) ne abbiamo fatte di tremende.


FB – Ancora oggi ci sono popoli senza una patria. Come gli Aramei, o come i Curdi, protagonisti del secondo cd, Ez Kurdistan im – Musica dal Kurdistan in Italia. Che lezione ci viene da questo popolo orgoglioso e indomito, da questa gente che parla la propria lingua anche quando le è proibito usarla, che disobbedisce e continua testardamente a fare la propria musica, a cantare la propria storia per non smarrirsi, per sentirsi viva, sentirsi popolo con le ali?

AP – Una delle cose che trovo straordinarie è proprio la tensione fra non avere una patria, averne molte (in Turchia, in Iraq, in Siria, in Iran), non averne nessuna – parlare una lingua vietata, ma impadronirsi per necessità che diventa virtù delle lingue permesse. Non so se è proprio la precarietà dell’identità (anche di genere) che produce esperienze come quella democratica del Rojava. Ma forse questo vale anche per altre diaspore, dagli ebrei agli africani deportati nelle Americhe.

FB – Molti vedono gli incroci, crossroads appunto, come qualcosa di sempre negativo e di pericoloso. Questa collana dimostra il contrario: l’incontro arricchisce sempre tutti. Cosa ti ha dato questo nuovo percorso?

AP – Io personalmente mi sono fatto molti amici e ho imparato molte cose – fra l’altro, che bisogna stare attenti a quello che raccontiamo, perché spesso le storie dei rifugiati e degli esuli hanno ripercussioni nei luoghi di provenienza. Quello che mi ha dato è di farmi sentire più radicato nel posto dove vivo, perché il posto dove vivo ha molte meno radici e più ali.

FB – Che culture ci racconterete nelle prossime tappe?

AP – Il prossimo cd si intitolerà Romeni romani e sarà dedicato alle musiche dalla Romania – troppe e troppo ricche per entrare in un cd o in un progetto, ma almeno un suggerimento di quello che c’è. Comprese musiche italiane reinventate da romeni diventati romani. Poi forse un lavoro dedicato ai Sikh. E cd tematici, dedicati, per esempio, ai culti, ai bambini…

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