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BRIZIO MONTINARO, IL TESORO DELLE PAROLE MORTE – LA POESIA GRECA DEL SALENTO, Lecce, Argo, 2009

15 Dicembre 2016 di Redazione-FB Lascia un commento

L’universo indagato da Brizio Montinaro in Il tesoro delle parole morte (Argo, 2009) è quello della produzione poetica in lingua greca che ha animato il Salento prima della latinizzazione. Ma è questo uno spazio di letterarietà che parte da lontano, attraversa i secoli per giungere ai giorni nostri nei tempi e nei modi della riproposta popolare. Il lavoro di Montinaro si articola in due sezioni: la prima, un corposo saggio dell’autore, ricostruisce le dinamiche storiche e culturali relative alla diffusione della lingua greca nel Salento, il formarsi di un immaginario comune veicolato dalle parole in musica fra Grecia e Salento, mentre alla seconda sezione è affidato un nutrito numero di testi che rende possibile la lettura e la messa in evidenza delle forme e dei temi già trattati dall’autore nel suo saggio introduttivo.
Il tesoro delle parole morte mostra come nel Salento, a differenza del resto del Sud Italia dove le tracce storico-monumentali dell’età magno-greca risultano evidenti, sia proprio questo dato a scarseggiare e lasciare lacune importanti dal punto di vista di una possibile ricostruzione, a vantaggio, invece, di tracce ben visibili sedimentate dal successivo passaggio bizantino: A ben guardare, attualmente nel territorio salentino, diversamente da quanto avviene in gran parte della Magna Grecia, non si vede quasi nulla di epoca arcaica o classica. Si vedono soprattutto resti pittorici ed architettonici bizantini (Montinaro, p. 36). Ultime scoperte in fatto di ritrovamenti archeologici inizierebbero, invece, a delineare uno scenario nuovo quanto incerto, passibile di nuove aperture e interessanti conferme. La scoperta nel 2003 della mappa di Soleto databile probabilmente al V secolo a.C., prosegue ancora Montinaro, o l’insediamento miceneo di Roca che mostra come la presenza greca fosse probabilmente più stabile rispetto a semplici contatti commerciali, mostrerebbero, insieme a una serie di luoghi di culto scoperti nell’entroterra salentino, come il territorio fosse popolato dai greci sin dal II millennio a.C.
Questi dati risultano importanti nel lavoro di Montinaro al fine di procedere ad una analisi storica e culturale della diffusione ed evoluzione della lingua greca nel territorio salentino. L’autore, passando in rassegna le ricerche di importanti studiosi – da Comparetti a Morosi, da Rohlfs a Hatzitakis fino a Karanastasis – tenderebbe a sposare l’ipotesi secondo la quale il greco salentino non sia altro che la risultante del lavoro di stratificazione esercitato dal tempo che avrebbe portato alla formazione di una lingua capace di conservare elementi di epoca magno-greca e relazionarli a quelli di epoca bizantina. È nata così una vivace querelle sulla sua origine, se di ascendenza magnogreca oppure bizantina. Noi siamo ampiamente convinti, avendo vagliato i risultati cui sono giunti un buon numero di glottologi e avendo studiato i rituali e miti d’ambito antropologico, che il rito grico parlato attualmente negli impervi paesaggi dell’Aspromonte e nella pianure salentine altri non sia che il risultato della somma della lingua di epoca magno-greca e della lingua parlata dai successivi coloni bizantini (p. 10). Tutto questo, unitamente alle ultime scoperte archeologiche, rende evidente che sia i miti e le fonti letterarie che volevano queste terre abitate da greci e fondate da loro eroi e che fino a non molti anni fa apparivano astratte e improbabili oggi cominciano a trovare lentamente timide prove. Miti e leggende non nascono mai a caso in un territorio. Sono molto resistenti al trascorrere dei millenni. Sono delle punte di iceberg di una cultura sepolta dal tempo (p. 37). In quest’ottica si svolge il lavoro di Montinaro sul patrimonio letterario, poetico, del Salento di lingua greca. Il griko, come lingua senza letteratura scritta, bensì di sola tradizione orale, è stato veicolato nel corso dei millenni grazie all’ausilio della musica, i cui motivi servivano spesso come spazio di articolazione e diffusione di testi differenti. In questo scenario la musica, però, ricopriva un ruolo secondario rispetto ai testi, protagonisti assoluti. La veicolazione della lingua nel corso dei secoli ha fatto sì che la capacità di penetrazione del senso arrivasse a noi sempre più rarefatta se non addirittura dispersa. Il carattere del non detto, scrive Montinaro a pagina 39, è il tratto peculiare del griko, il suo senso recondito. Un bagaglio linguistico preciso, con scarsità di polisemie, caratterizza la lingua grika che trova reciprocità nella sua poetica con quella greca. Motivi ed espressioni comuni si ripetono fra le due tradizioni popolari, evidenziando come la ripetizione non fosse soltanto una memoria capace di conservarsi comune fra i due popoli, ma una struttura esplicativa di un modo di pensare. Lòja gramména, ovvero parole strette, a seconda della versificazione, nel cuore, nel petto, sulle labbra, è uno dei motivi tipici rilevati da Montinaro. I temi, di carattere soggettivo, tendono ad esprimere nei versi, similmente alla poesia popolare greca, l’amore, l’eros – spesso rappresentato dal vento che scopre parti del corpo della donna amata – e la personificazione degli elementi naturali. Entrambe le tradizioni popolari presentano l’accompagnamento musicale ai versi, tramandati per via orale e il forte grado metaforico della composizione che esprime la soggettività lirica per improvvise illuminazioni. Il carattere a volte violento, volgare, sarcastico, trova articolazione nel lavoro nei campi attraverso la ferrea rivalità fra paesi, in una versione rilevata da Montinaro da una contadino originario di Martano che ebbe modo di riferire un fatto a lui accaduto all’età di 18 anni: Ti devo raccontare un fatto che mi è accaduto molti anni fa, non tanti però: io potevo avere diciassette diciotto anni. Siamo andati a Zollino per mietere. E il massaro ci disse che [tra gli altri mietitori] c’erano due che erano poeti (p. 24). Il resto del racconto prosegue con il mietitore martanese che viene sfidato al canto da un mietitore zollinese lungo una geografia umana ed esistenziale che sembra provenire da lontano insinuandosi nelle pieghe del ‘900, momento in cui è rilevata da Montinaro direttamente dal contadino originario di Martano. La caratteristica della versificazione tende e si concede al canto tra sarcasmo e volgarità. Il lavoro di Montinaro evidenzia come il processo di latinizzazione sia stato lungo e articolato, alle volte caratterizzato da violenta esclusione sociale, in un contesto in cui la doppia lingua permane in alcuni comuni del Salento fino al ‘900 e assume connotazioni di una mai sopita vis polemica e identitaria. Il racconto di una bambina, in una scuola elementare degli anni ’20, che chiedendo Maestra, posso andare al cesso essu? uscì dall’aula e non tornò in classe per tutta la giornata rende bene le conflittualità protrattesi nel tempo. Il giorno dopo, alla domanda della maestra che chiedeva come mai non fosse più tornata, la bambina rispondeva di essere andata a casa e di aver avuto da lei stessa il permesso: Io ho chiesto: posso andare al cesso essu, cioè di casa, e tu mi hai detto di sì. In definitiva il testo edito da Argo propone uno spaccato di ricerca che evidenzia la prospettiva diacronica della lingua e le sue relazioni linguistiche e tematiche con la tradizione greca, l’importanza del suono a sostegno della continuità storica dei versi i quali portavano la parola ad esprimersi, per qualità intrinseca, nel canto.

Francesco Aprile

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