DAVE PEABODY: un grande del British blues
Dave Peabody, classe 1948, non è solo un formidabile cantante chitarrista e armonicista. A tutto ciò quest’esponente di prima grandezza di quello che il mondo conosce come “British blues” aggiunge una serie di talenti che lo vedono eccellere sia come attento studioso di blues sia come sensibile fotografo. Senza dimenticare poi il fatto che sappia scrivere canzoni molto belle e che sia in grado di muoversi in ogni direzione la musica delle radici lo conduca. Nativo di un sobborgo londinese, Dave suona dalla metà degli anni Sessanta. Nel suo paese è stato premiato come “Artista di blues acustico dell’anno” nel 1995, nel 2001 e nel 2002. Un riconoscimento senz’altro meritato. Chi ha ascoltato Peabody almeno una volta nella vita non può che essere d’accordo. Durante la sua ormai lunghissima carriera ha collaborato lungamente con un’autentica icona del British blues come il pianista blues e boogie woogie Bob Hall, uno che ha suonato con i Savoy Brown, Peter Green, Mick Fleetwood, Tony McPhee, la De Luxe Blues Band, e i fratelli Dave e Jo-Ann Kelly. Apprezzato anche negli States, Peabody ha suonato dal vivo e inciso con il leggendario armonicista americano Charlie Musselwhite e con il pianista di Cincinnati Big Joe Duskin. Ha anche registrato un disco con un altro amico di entrambi , l’armonicista neozelandese Brendan Power. In questi ultimi anni abbiamo spesso suonato in duo divertendoci tantissimo. E poi andare d’accordo con lui non è difficile: Dave ha un sorriso disarmante e uno spessore artistico di altissimo livello e suonare con lui è sempre un avvenimento speciale. L’estate scorsa Dave, Brendan Power ed io ci siamo ritrovati sullo stesso palco a condividere sorrisi, canzoni e storie di blues. Prima di quel concerto, io e Dave abbiamo chiacchierato a lungo e questo è ciò che ne è venuto fuori.
Come hai iniziato?
Mi sono procurato la mia prima chitarra quando avevo dodici anni anche se allora non avevo nessuna idea sulla musica che avrei voluto suonare. Mi piaceva molto il jazz degli inizi. Soprattutto Jelly Roll Morton, Bix Beiderbecke, e il primo Armstrong, ma all’epoca non riuscivo a suonare le loro canzoni così piene di accordi complicati. Un po’ più tardi cominciai ad ascoltare artisti folk comeWoody Guthrie e Bob Dylan (quest’ultimo l’avevo visto alla Royal Albert Hall di Londra durante il suo primo tour in Inghilterra come solista); e imparai alcune loro canzoni.
Poi (sic), nel 1964, quando avevo sedici anni, andai ad un concerto folk. In programma c’era un “certo” Jesse Fuller. Fu lui il primo musicista nero che vidi e fu lì che ascoltai per la prima volta elementi di jazz fusi con la musica folk. Jesse suonava una chitarra a 12 corde e l’armonica con il reggiarmonica (proprio come Dylan). Solo qualche settimana più tardi, andai a vedere John Hammond (che suonava anche lui l’armonica con un reggiarmonica) quindi decisi di procurarmi anch’io tutto quell’armamentario. Naturalmente mi comprai anche una chitarra a dodici corde.
Dopo aver ascoltato il blues dal vivo cominciai ad acquistare dischi di blues e di “jug band music” e iniziai a imparare le canzoni contenute in quegli album. La prima canzone “quasi blues” che imparai fu “San Francisco Bay Blues” di Jesse Fuller. Quella fu anche la primissima canzone che suonai in pubblico in un folk club della parte occidentale di Londra non lontano da dove ero nato e vivevo. Negli anni Sessanta da quelli parti c’erano parecchi club dove poter andare a suonare o ad ascoltare musica.
foto di Mario Rota
Parlami delle tue prime band come iPolly Flosskin e i Tight Like That .
Agli inizi mi esibivo come solista ma siccome mi piaceva tantissimo la musica delle jug band decisi di formarne una con amici che avevo incontrato nei folk club che frequentavo (uno di questi locali era gestito dagli Strawbs). Lì incontrai Hugh McNulty che suonava un contrabbasso “artigianale” (era fatto con una cassa da tè)
che mi presentò un suo amico, Colin Gale, che suonava il washboard. Sebbene ci chiamassimo Honest John Three, in realtà avevamo un quarto membro: il chitarrista Steve Simpson (che più avanti negli anni suonerà prima con gli SlimChance di Ronnie Lane e più tardi con Eric Bibb). Nel 1966 gli Honest John Three vinsero il “National Jug Band Contest” (Jo Ann Kelly era nella giuria). A quella competizione parteciparono anche altre band come i Panama Limited Jug Band e gli Slow Water Jug Jukes (in cui militava Duster Bennett). Tra il 1967 e il 1970 facevo la spola tra Londra e Plymouth dove frequentavo la scuola d’arte. Durante quegli anni formai diverse jug band. Inoltre davo una mano a gestire un club ingaggiando altri artisti ed esibendomi io stesso almeno una volta alla settimana. Nel club si suonava sia folk che blues. Arrivavano anche artisti americani in tour come Arthur “Big Boy” Crudup e Juke Boy Bonner. Nel 1970 mi stabilii definitivamente a Londra (dove abito ancora oggi) e formai i Tight Like Thatcon due musicisti con cui avevo già suonato a Plymouth: Dave Griffiths al violino e al mandolino e Mike Bright al washboard. A noi si unì ancora una volta Hugh McNulty con il suo basso “artigianale”. Sempre in quel periodo incontrammo un tipo che voleva farci da manager. Fu quest’ultimo a procurarci un contratto con la Vogue un’etichetta francese che tra l’altro distribuiva i dischi di Big Bill Broonzy. A loro però non piaceva il nome Tight Like That così il nostro manager ci propose di cambiarlo in Polly Flosskin… Quindi in realtà i Polly Floskin altro non erano se non i Tight Like That. Con un nome diverso. Dopo il nostro primo album Mike Bright lasciò il gruppo e al suo posto a suonare il washboard entrò Bill Shortt. Incidemmo il nostro secondo disco “Hokum” (prodotto da Ian A. Anderson) per la Village Thing Records e per l’occasione tornammo a chiamarci Tight Like That. I Tight Like That suonavano senza sosta e con grande energia. Siamo rimasti insieme tre anni e facevamo in media dai 20 ai 25 concerti ogni mese. Shortt era uno dei più bravi suonatori di washboard di sempre e Dave Griffiths era ed è un musicista di grande livello in grado di suonare di tutto, dal ragtime al jazz alla musica classica.
Tu sei stato testimone diretto dei giorni gloriosi del British blues? Cosa ti ricordi di quel periodo? Chi erano i tuoi eroi in quegli anni ?
Quando ero a Londra a metà degli anni Sessanta le band che preferivo erano i Bluesbreakers di John Mayall ( prima con Eric Clapton e poi con Peter Green) e i Graham Bond Organization (Graham Bond, Dick-Heckstall Smith, Jack Bruce e Ginger Baker). Di solito andavo ad ascoltarli al leggendario Eel Pie Island Club che si trovava nella zona ovest di Londra. In quegli anni vidi anche un concerto di T-Bone Walker con Dizzy Gillespie (!!! n.d.r.), e Dave Kelly mi presentò Howlin’ Wolf che lui e la sua band accompagnavano al Marquee Club di Londra. Andavo anche spesso al Bunjie’s Coffee House (dalle parti di Soho) dove Jo Ann Kelly teneva delle jam session di blues e dove sovente venivo invitato ad intervenire in qualche brano.
Per quanto riguarda invece gli artisti acustici che mi piacevano in quegli anni ricordo che andavo spesso a sentire Davy Graham e Bert Jansch che all’epoca erano popolarissimi.
Tu non sei solo un grande musicista ma anche un esperto di blues. Perché seconde te, in quegli anni subito dopo la Seconda Guerra Mondiale i giovani musicisti inglesi furono così attratti dal blues e dalla musica ad esso correlata?
Perché il blues sembrava la musica giusta per rappresentare la libertà. Il blues era una musica libera. La maggior parte di quei musicisti (sia acustici che elettrici) venivano da un periodo, quello della guerra, dove tutto era codificato e prestabilito. Pensa che il razionamento dei viveri durò sino agli inizi degli anni Cinquanta. C’era molta povertà. I giovani poi soprattutto non avevano soldi da spendere per il loro tempo libero. La musica che era disponibile attraverso la radio e dischi consisteva in canzoni pop piuttosto insipide e in ballate in cui a farla da padrone erano stucchevoli arrangiamenti d’archi. La rivoluzione giovanile cominciò negli States negli anni Cinquanta ma in Inghilterra non esplose sino agli inizio degli anni Sessanta.
Bill Haley era venuto a suonare in Gran Bretagna negli anni Cinquanta e il suo arrivo provocò sicuramente qualche sussulto nel mondo giovanile; ma quando ripartì per gli States i nostri gruppi musicali locali erano così scarsi rispetto a quelli americani che tutto finì presto in una bolla di sapone. Alla fine degli anni Cinquanta Chris Barber un jazzista inglese cominciò a portare in tour in Gran Bretagna facendoli accompagnare dalla sua band artisti come Big Bill Broonzy, Muddy Waters, Otis Spann, Sonny Terry & Brownie McGhee e altri ancora. Quelle furono le prime occasioni che gli inglesi ebbero di ascoltare del blues vero, autentico. All’inizio degli anni Sessanta i dischi di blues cominciarono ad essere disponibili anche da noi, e l’impatto di quella musica ruspante e di questi testi pieni riferimenti alla vita vera dettero la sveglia a un numero sempre maggiore di giovani alla ricerca di un modo per esprimere ciò che avevano dentro. Alcuni tra loro potevano finalmente comprarsi una chitarra elettrica, un amplificatore e delle armoniche cosa praticamente impossibile sino a qualche anno prima.
Qualcuno ha detto che il blues e il gospel non sono altro che due facce della stessa medaglia e qualcun altro afferma che il blues sia una musica con capacità taumaturgiche. Sei d’accordo?
Ho sempre pensato che il blues fosse una musica capace di guarire. Può far stare davvero meglio sia chi la suona sia chi la ascolta. Per quanto mi riguarda a me piace il blues “malinconico e profondo” ma ho sempre amato anche il suo lato più leggero, più divertente… Quello suonato delle leggendarie jug bands come i Cannon’s Jug Stomper’s e la Memphis Jug Band ; o il blues con influenze ragtime di Blind Blake, Blind Boy Fuller, Blind Willie McTell, Tampa Red e tanti altri. Mi chiedi se il blues e il gospel siano due facce della stessa medaglia? Beh, sicuramente ci sono gospel con elementi blues al loro interno e blues che possono essere interpretati come se fossero dei gospel. Negli USA la religione gioca un ruolo fondamentale nelle comunità nere da cui provengono i musicisti afroamericani quindi questi due mondi musicali (uno estremamente laico e l’altro profondamente spirituale n.d.r.). difficilmente si incontrano. In Gran Bretagna vige una tradizione più secolare e quindi i musicisti inglesi suonano sia blues che gospel senza alcun tipo di problema.
foto di P. Ryalls
Quali sono gli eventi della tua carriera che consideri indimenticabili?
Il difficile è dove cominciare. Ho suonato blues per più di quarantacinque anni e la lista degli eventi memorabili è piuttosto lunga.
L’aver conosciuto il bluesman del Mississippi David “Honeyboy” Edwards, l’aver suonato ed essere stato in tour con lui con lui più volte nel corso degli anni è stato un onore davvero speciale.
Ho incontrato per la prima volta Honeyboy 25 anni anni fa , il 21 marzo 1986. Era un venerdì e lui suonava all’Amsterdam Blues Festival. Scambiai poche parole con lui nel backstage in quell’occasione ma quando venne a Londra per la prima volta nell’agosto del 1989 per suonare in un blues festival gli feci una lunga intervista per un magazine britannico. Dal 1990 al 2006 abbiamo fatto qualcosa come 8 o 9 tour insieme con me nel doppio ruolo di tour manager, secondo chitarrista e all’occorrenza armonicista. Un anno si è unito a noi Aron Burton per lungo tempo bassista di Junior Wells e debbo dire che quella volta ci siamo davvero divertiti. Con Honeboy siamo stati dappertutto nel Regno Unito e abbiamo suonato anche in Irlanda, Danimarca e Svezia. Mi faceva un certo effetto essere seduto sullo stesso palco a suonare con un uomo che aveva conosciuto così tanti bluesmen leggendari ( (Big Joe Williams, Tommy Johnson, Robert Petway, Robert Johnson, Little Walter e tanti altri.). Lo stesso Honeyboy era un bluesman davvero speciale. Nel giugno 2003 mentre mi trovavo a Chicago per fotografare Buddy Guy nel suo club andai a trovare Honeboy a casa sua. Anche quella fu un’esperienza indimenticabile.( Honeyboy Edwards è scomparso all’età 96 anni il 29 agosto 2011 n.d.r.).
Nell’ottobre del 1994 durante un viaggio in Mississippi, il fotografo Axel Kustner mi portò a conoscere Eugene Powell nella sua casa di Greenville. Eugene ha registrato alcuni dischi nel1936 (come “Sonny Boy” Nelson) ed è stato grande amico dei Mississippi Sheiks e di Bo Carter. Fu quindi un vero privilegio poter sedere sotto la veranda di casa sua a suonare con lui e ascoltare le sue storie.
L’aver suonato una volta la chitarra in Germania con Memphis Slim e aver avuto Sonny Terry sul palco a suonare con me e Bob Hall al Philadelphia Folk Festival del 1984 sono altre due istantanee davvero memorabili che ho ben impresse nella mia memoria.
Ma molti dei momenti che ricordo con affetto sono semplicemente quelli in cui sono sul palco. Quando sento che attraverso la musica riesco davvero a connettermi con il pubblico. Che stia suonando in un piccolo club o in un bar , da solo o in duo con i tanti compagni con cui ho suonato in coppia (Hugh McNulty, Diz Watson, Bob Hall, Rob Mason, Brendan Power, Colin Earl) oppure con una grintosa band come la King Earl Boogie Band in un grosso festival, quelli sono tutti momenti speciali.
E un altro momento particolarmente memorabile l’ho avuto piuttosto di recente nel mese di luglio a Treviglio in Italia quando io, Brendan Power e un certo Mr. Poggi abbiamo improvvisato sul momento un brano in cui tutti e tre suonavamo le nostre magiche armoniche!
Tu hai collaborato spessissimo con un paio di leggendari pianisti inglesi: Bob Hall e Colin Earl. Puoi descriverci la tua esperienza con loro?
La prima volta che ho suonato con Bob Hall è stato nel 1969. Avevo già sentito parlare di lui all’interno della scena blues londinese e sapevo che aveva suonato con
i Savoy Brown, Jo Ann Kelly e altri , ma non l’avevo mai conosciuto personalmente. Il nostro incontro avvenne in occasione di un concerto in cui mi era stato chiesto da un chitarrista, Simon Prager, di sostituirlo in una serata in cui si sarebbe dovuto esibire in trio con l’armonicista Steve Rye (dei Groundhogs) e, appunto, Bob Hall. M i resi conto immediatamente di quanto bravo fosse Bob a suonare il piano. Avrei voluto che suonasse da subito in duo con me ma la cosa non poté avvenire perchè proprio grazie al suo talento straordinario Bob era sempre pieno di impegni. Incominciammo a suonare regolarmente insieme solo verso la metà degli anni Settanta dopo che Bob era venuto ad incidere il suo piano in “Come And Get It” un mio disco del 1976 originalmente edito in Inghilterra dalla Matchbox e poi ristampato dall’italiana Appaloosa. Nel 1977 ho prodotto un album degli All-Star Medicine Show (Simon Prager, Steve Rye e Bob Hall con ospite Jo Ann Kelly) per la Red Rag. Dai lì in poi io e Bob abbiamo cominciato a girare insieme abbastanza costantemente, fatti salvi i nostri impegni solisti. Negli anni Ottanta abbiamo anche inciso un paio di dischi per l’Appaloosa con alcuni membri della band di Bob (i Rocket 88) e un ospite di tutto rispetto come Paul Jones (Manfred Mann / The Blues Band) all’armonica. Sempre in quegli anni fu molto eccitante accompagnare in concerto e registrare in trio con Charlie Mussselwhite. Sempre negli anni Ottanta, e più precisamente nel 1984 abbiamo suonato negli Stati Uniti al Philadelphia Folk Festival e al San Francisco Blues Festival. Più recentemente , negli ultimi anni, io e Bob abbiamo portato in giro uno spettacolo emblematicamente intitolato “Meetings With Remarkable (Blues) Men” in cui oltre a suonare raccontiamo le nostre esperienze personali vissute incontrando e suonando con innumerevoli artisti blues americani . Il tutto è accompagnato da una mostra di mie fotografie. Il nostro cd più recente come duo risale al 2010 ed è una registrazione live di quello show.
Non avevo mai incontrato Colin Earl fino a che non mi invitarono ad unirmi alla King Earl Boogie Band (nel settembre del 1997). A farlo fu il percussionista della band che conoscevo sin dall’inizio degli anni Settanta. Mi fu chiesto di sostituire il loro chitarrista per soli tre concerti e invece sono ancora nella band dopo 14 anni! Colin in origine ebbe un enorme successo come membro originale dei Mungo Jerry un gruppo che arrivato alla testa delle classifiche dei dischi più venduti con la celeberrima “In The Summertime” che vendette più di 23 milioni di copie in tutto il mondo. Dopo quattro anni passati con i Mungo Jerry, Colin e un altro membro di nome Paul King lasciarono il gruppo per formare la King Earl Boogie Band. E Paul King era, manco a farlo apposta, proprio quel chitarrista che ero stato chiamato a sostituire per quelle “famose tre sere”. Tre sere che sono poi diventati quasi tre lustri. Colin ha passato diverso tempo negli States suonando nei Foghat in cui militava come batterista anche il fratello Roger. Colin (il cui eroe pianistico è Jerry Lee Lewis) suona sempre con un’energia straordinaria. E poi sembra essere nato per suonare in una band. Infatti mi ci sono voluti parecchi anni per convincerlo a suonare con me in duo un repertorio sicuramente più acustico rispetto a quello che suoniamo con l’intera band. Abbiamo anche registrato un cd in Germania per la Valve Records (www.valve-records.com) di cui siamo molto soddisfatti. Colin Earl e Bob Hall naturalmente suonano il piano in due stili completamente diversi tra loro e questo comporta il fatto che anch’io debba adattare il mio modo di suonare al loro. Ma questo mi piace, perché rende ogni performance unica e intrigante.
Quanti sono i dischi che hai inciso dall’inizio della tua carriera?
25 tra ellepì, cd e cassette come solista o con progetti in cui la mia presenza era preponderante. Ma ovviamente ho suonato anche in parecchi dischi di altri musicisti e sono presente in diverse compilation. Insomma in totale fanno 54 album, un EP e tre 45 giri!
Perchè secondo te il blues è riuscito a diventare una sorta di lingua internazionale tanto che oggi abbiamo eccellenti bluesmen in ogni parte del globo?
Il blues è sempre quello di una volta e sempre lo sarà…
Però il blues è anche una musica che non si ferma mai. Cambia continuamente forma, si adatta, per continuare ad esistere. Dall’America all’Europa, all’Australia al Giappone il blues è davvero una musica universale. In ogni decennio a partire dall’inizio del Novecento la gente ha trovato mille modi diversi di esprimere sé stessa attraverso il blues.
Il blues è una musica capace di parlarti e tu attraverso il blues puoi comunicare con gli altri.
Sono stato in posti in cui mai e poi mai avrei pensato di trovare del blues …. E invece da Cuba al Nepal , da ovest a est ho incontrato persone che amavano il blues. E che lo suonavano. Incredibile!”
Sul muro di un vecchio negozio di dischi del Mississippi c’è scritto: Chi non ama il blues ha un buco nell’anima. Sei d’accordo?
Naturalmente!
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