Eccomi di nuovo con diversi cd che hanno riempito le mie giornate di ottima musica. E un’intervista con una leggenda del blues che non vede l’ora di venire a suonare da noi.
LAST TRAIN TO BLUESVILLE
The Nighthawks
RIPBAG 003, 2010
Un album assolutamente inaspettato. Ma come? I leoni (o meglio i falchi, i falchi della notte) del rock blues americano hanno inciso un disco acustico? Non mi sembra vero. Eppure avrei dovuto saperlo che dietro a torride chitarre, a potenti tamburi e ad armoniche distorte si nascondeva un cuore dannatamente innamorato del blues delle radici. Quello che suoneremo (forse) il giorno in cui qualcuno ci toglierà l’elettricità. Ho fatto una bella chiacchierata con Mark Wenner, straordinario armonicista e autentico deux ex machina della band, un po’ di tempo fa e da lì ho imparato un po’ di cose su quello che c’è dietro ad una delle più leggendarie blues band d’America. Parto subito dicendo che il cd a me è piaciuto tantissimo e spero davvero che possa piacere altrettanto a voi. Non c’è nulla di nuovo, non c’è nulla che non avete già sentito in questo lavoro. Ma lì sta il bello. Sta nell’immenso piacere di poter riascoltare brani che hanno accompagnato la nostra vita in una nuova veste. Il tutto con l’impareggiabile maestria sonora dei Nighthawks, veri maestri nel coniugare perizia musicale ed essenzialità sonora. Il lavoro (che ha una bellissima copertina) comprende un concerto registrato in diretta (senza trucco e senza inganno) per la radio satellitare Sirius/XM nella mitica trasmissione Bluesville Live Homemade Jam condotta da Bill Wax. A suonare per il programma oltre al già citato Mark all’armonica c’erano Paul Bell alla chitarra, Johnny Castle al contrabbasso e Pete Ragusa alla batteria (che ha lasciato la band lo scorso anno dopo trent’anni passati on the road). E a proposito di strada, si sente che questi sono musicisti che hanno una media di trecento concerti all’anno. Si sente da come cantano e da come suonano. E si comprende anche il perché band diventate poi più conosciute, almeno nel nostro Paese, come i Fabulous Thunderbirds, i Destroyers di George Thorogood e i Nine Below Zero li hanno presi come modello. Almeno ai loro inizi. Nei primi anni Settanta non erano tante le band che riuscivano a coniugare Chicago blues, soul e rockabilly come i Nighthawks. Tanta acqua è passata sotto i ponti del blues ma questi musicisti hanno la stessa passione di quando hanno iniziato tanti anni fa. E si sente. Ecco perché mi sono emozionato a risentire per l’ennesima volta “Nineteen years old”, “Can’t be satisfied” e “Rollin’ and tumblin” del grande Muddy Waters; “Rainin’ in my heart” del sublime Slim Harpo, “Mighty long time” di Sonny Boy Williamson, “I’ll go crazy” di James Brown (delizioso il loro arrangiamento doo-wop), “The Chicken and the Hawk” di Big Joe Turner (era già nel loro fortunato “Trouble” del 1990), e “High Temperature di Little Walter” (che ricordo in un ellepì solista di Mark Wenner che ho comprato “milioni” di anni fa).
Canzoni senza tempo. Sempre uguali e sempre diverse.
Ci sono mestiere, classe, eleganza, cuore e passione in questo disco. Le novità cercatele altrove.
Per saperne di più visitate su www.thenighthawks.com
Qui li potete ascoltare in un classico di Slim Harpo
qui nella colonna sonora dell’acclamata serie televisiva The Wire
e qui live mentre accompagnano il grande Billy Price
Ed ecco quindi un’intervista al grande MARK WENNER storico leader dei NIGHTHWAKS che ho incontrato al Lucerna Blues Festival 2010
Poteva diventare un avvocato. D’altronde si è laureato a pieni voti alla Columbia University di New York. Suo fratello è diventato un avvocato di successo. Quello era ciò che i suoi genitori sognavano per lui. Quello era il destino, in parte già segnato, per un ragazzo ebreo di buona famiglia cresciuto nei quartieri bene di Washington. A cambiare tutto fu un suono magico che un bel giorno o meglio una notte tempestosa uscì da una piccola radio. Era il suono del blues. Da quel giorno quel ragazzino cominciò a dire le bugie . Ogni domenica pomeriggio diceva alla mamma che sarebbe andato a vedere un film nel piccolo cinema del quartiere. Non era vero. Quel ragazzino innamorato del blues correva invece a prendere l’autobus che lo avrebbe portato dall’altra parte della città. Nei sobborghi neri. Lì dove c’era un posto in cui si suonava il blues.
Gli anni passarono. Quel ragazzo diventò un giovanotto e partì per il college. Tutto sembrava andare per il verso giusto.
Quando però il ragazzo tornò a casa successe qualcosa che molti sapevano che prima o dopo sarebbe avvenuta.
Il ragazzino che raccontava bugie per andare a sentire la musica che gli aveva rubato il cuore scoprì che il richiamo del blues era più forte di lui.
Allora mollò tutto, si coprì il corpo di tatuaggi, si mise in sella ad una potente motocicletta (l’altra sua malattia insieme al blues) e cominciò a girare l’America con la sua band i Nighthawks, i falchi della notte.
Ecco, raccontata da lui, la storia di una vera leggenda del blues: Mark Wenner (foto di Aigars Lapsa).
Come è cominciata la tua avventura musicale? Chi sono stati i tuoi eroi agli inizi? A dir la verità Washington e dintorni non sembrano una zona particolarmente legata al blues o comunque alla musica afroamericana, o sbaglio?
Ho cominciato ascoltando la radio negli anni Cinquanta a Washington DC dove sono cresciuto. A metà degli anni Cinquanta, specialmente dal 1955 al 1958, la musica che c’era sulla costa nord orientale degli States era meravigliosamente combinata. C’era un mix davvero straordinario. Washington poteva essere paragonata a Memphis, anche se noi non avevamo etichette come la Chess e la Stax. Ma il miscuglio di differenti culture che c’era a Washington in quegli anni era lo stesso che si poteva trovare a Memphis. A Washington c’era sempre da lavorare anche durante la Grande Depressione e nel periodo della Seconda Guerra Mondiale. La gente arrivava lì dalla Pennsylvania, dalla Virginia e dalla Carolina. Le persone che emigravano a Washington suonavano di tutto: musica hillybilly, blues, polka. E tutti naturalmente ascoltavano tutti. Per esempio Bill Haley stava creando una sorta di rockabilly mischiando la polka country & western che veniva suonata dalle band della Pennsylvania con il rhythm ‘n’blues. A volte a tracciare la melodia c’era un sassofono, altre una fisarmonica. Quando Haley arrivò per la prima volta a Washington nel 1952 ebbe un grande successo. La gente apprezzava enormemente la sua miscela musicale e tutti diventarono grandi fan della musica rockabilly. Lo stesso trattamento non lo ebbe invece Elvis Presley che iniziò la sua carriera partendo da Memphis per poi andare quasi subito a Nashville. Né a Memphis né a Nashville capivano il suo stile musicale. Anzi addirittura lo odiavano. Dovette in qualche modo emigrare nel sud ovest degli States, in Arizona e New Mexico dove si suonava western swing e dove erano più abituati a un melting pot musicale. A Nashville c’erano i puristi del Grand Ole Opry che naturalmente non amavano il suo mix musicale. Per me Washington è stato un ottimo posto in cui crescere. Soprattutto musicalmente.
Come e quando hai scoperto il blues e tutto il resto?
Ascoltando la radio. Alla metà degli anni Cinquanta sentivo Elvis, Carl Perkins, Johnny Cash, George Jones, Hank Williams e poi i Coasters, i Drifters, e tutti quei gruppi doo-wop. Ascoltavo anche Big Joe Turner e il suo jump blues; Jimmy Reed e John Lee Hooker. Nelle cose che suonava Jimmy Reed con la sua armonica c’era qualcosa che mi intrigava. E’ stato molti anni prima che cominciassi a suonare davvero ma quel sound girava continuamente nella mia testa. Negli ultimi anni delle medie, verso la fine degli anni Cinquanta, le radio di Washington cominciarono a cambiare le loro playlist. In peggio. Al posto di Jerry Lee Lewis e Gene Vincent trasmettevano cantanti pop come Frankie Avalon e Fabian. Sapevo che c’era qualcosa che non andava anche perché quelle canzoni non mi piacevano. Per fortuna qualche tempo dopo scoprii tre emittenti afroamericane che trasmettevano rhythm ‘n’ blues. Lì ascoltavo Ray Charles, James Brown, e i primi successi della Motown. Roba funky tipo il Marvin Gaye degli inizi. Quando avevo dodici o tredici anni prendevo l’autobus e andavo in un teatro frequentato dai neri: l’Howard Theater che per noi di Washington era come l’Apollo Theater di New York. Gli stessi artisti che si esibivano all’Apollo si esibivano anche lì. Gli artisti si fermavano una settimana. All’Howard Theater ho avuto la possibilità di vedere tutti i grandi del soul, da James Brown a Otis Redding. Nel frattempo continuavo ad apprezzare la musica di Jimmy Reed e John Lee Hooker. In seconda liceo lessi un articolo su Sing Out! in cui Tony Sun Glover elencava tutti i dischi di blues essenziali. Tutti quelli dei grandi. Così sono andato nel negozio in cui vendevano i dischi, ma l’unica cosa trovai fu un disco di Wilson Pickett , che naturalmente comprai. Dei nomi che avevo letto nemmeno l’ombra. Ma da lì in poi, non so nemmeno io il perché, ogni tanto sugli scaffali del negozio cominciarono ad arrivare i dischi che cercavo. Fu in quel momento che cominciai a comprare gli ellepì al posto dei quarantacinque giri. Ovviamente i primi furono quelli di Muddy Waters, Little Walter, Slim Harpo (con la sua “Raining in my heart”), Lightnin’ Slim e Lazy Lester. Qualche tempo dopo scoppiò il fenomeno del folk blues e cominciai ad ascoltare artisti come Sonny Terry e Brownie McGhee , e cose di quel tipo. Nello stesso periodo scoprii una compilation folk in cui c’era gente tipo Judy Collins ma anche la strepitosa versione di “Born in Chicago” di Paul Butterfield. Fu allora che decisi di voler suonare l’armonica. All’inizio avevo qualche perplessità. Ero convinto che solo i neri potessero suonare il blues con quello strumento. Avevo un’armonica in Do e cercavo di seguire i dischi di Elmore James che come si sa suona quasi sempre in Re. Non tutto quello che suonavo insieme a quei dischi mi dava soddisfazione ma ogni tanto sentivo di essere sulla buona strada. In quel periodo suonavo “Dust my broom” in terza posizione anche se all’epoca non me ne rendevo conto.
C’è un episodio particolare che ti fece dire: “Voglio diventare un musicista blues”?
Tutto successe nell’ottobre del 1966. Ero da poco all’università, a New York. Gli studenti avevano organizzato quello che da noi si chiama l’Home coming dance, il ballo più importante dell’anno. A suonare chiamarono la Paul Butterfield Blues Band. Io e la mia fidanzata dell’epoca ci siamo vestiti eleganti di tutto punto e poi abbiamo preso il treno per andare al ballo. Eravamo tutti e due piuttosto timidi. Infatti arrivammo là e nessuno dei due se la sentì di ballare. Io passai tutta la sera a bocca aperta davanti a Paul Butterfield. L’avevo sentito su disco ma dal vivo era tutta un’altra cosa. Quello è stato per me un momento cruciale. Fino ad allora avevo un paio di armoniche e spesso mi univo a qualche compagno che passava il tempo nel dormitorio del college strimpellando la sua chitarra. Da quella notte in poi tutto cambiò. Anche il mio rendimento scolastico. Comprai “Hoodoo Man” di Junior Wells, “Stand Back” di Charlie Musselwhite e “East West” di Paul Butterfield. Quella sera, la sera del ballo, la band suonò tutto quel disco ancor prima di averlo inciso. Non arrivai subito a Little Walter. Mi ci volle ancora un anno per conoscere la sua musica. Ma nel frattempo avevo scoperto i due Sonny Boy e Big Walter Horton. Intanto avevo acquistato un piccolo amplificatore e un microfono per armonica e facevo impazzire tutti i miei vicini di casa. Beh, ad essere sincero nessuno si è mai lamentato veramente. L’importante era non suonare di notte. Anzi ogni tanto qualcuno si affacciava alla finestra per sentirmi suonare l’armonica.
Spesso i musicisti che ho incontrato mi hanno raccontato che agli inizi hanno avuto un amico o comunque una persona con cui condividevano i loro primi passi nel mondo della musica. E’ stato così anche per te?
Sì, agli inizi cominciai a gironzolare da una sala prove all’altra suonando con diverse band. Poi un giorno scoprii che proprio nel mio dormitorio c’era un altro ragazzo che suonava l’armonica con una band di rock blues che si ispirava ai Rolling Stones. Sia lui che la band erano davvero forti. Era un ragazzo molto gentile e alla mano e presto diventò una specie di mentore per me. E non solo come armonicista. Lui mi fece conoscere altra ottima musica. Gente come Doc Watson e John Coltrane, espandendo i miei orizzonti musicali. Negli anni successivi passò alla chitarra e quindi le possibilità di suonare insieme aumentarono.
Lui suonava la chitarra e io l’armonica. Purtroppo è scomparso due anni orsono. Si chiamava Bob Norman. Era davvero un grande quando suonava la sua Telecaster dentro a un Fender Super Reverb. Il suo sound era una miscela di Steve Cropper, Robbie Robertson e B. B. King. Aveva un suono pulito che arrivava subito. Insieme abbiamo suonato alle feste danzanti, a un paio di musical rock, abbiamo accompagnato diversi folk singers. In quegli anni tutto ciò che facevamo lo facevamo insieme (e qui Mark si commuove).
So che anche Little Walter ti ha influenzato parecchio. Quando lo hai scoperto?
Il giorno in cui mi resi conto di quanto fosse importante Little Walter nella storia dell’armonica blues fu nella stessa settimana in cui lui morì. Era il 1968.
Little Walter era uno strumentista davvero unico. Anche per via dell’amplificazione del suo strumento. Il suo modo di suonare era completamente diverso da quello di Slim Harpo, Lazy Lester e Jimmy Reed il cui stile al confronto di quello di Walter era sicuramente meno “sofisticato”. Come si sa il suono di Little Walter assomigliava più a quello di un sassofono che a quello di un’armonica. Lui era davvero avanti nel concepire un nuovo approccio all’armonica blues. Non ho mai avuto la possibilità di vedere Little Walter live, a parte quel paio di video del tour europeo dell’American Folk Blues Festival in cui tra l’altro si vede un Little Walter piuttosto arrabbiato per il fatto che gli organizzatori gli impedirono di suonare l’armonica amplificata.
Quando hai deciso che era venuto il momento di formare una band?
Nel 1972, subito dopo l’università. Per finire gli studi rimasi a New York per sei anni suonando in ogni situazione e con chiunque. Poi una volta laureato decisi di tornare a Washington e di formare una band. Se devo essere sincero il vero motivo per cui volevo tornare a Washington era Bobby Radcliff. Lui ed io eravamo rimasti in contatto durante il mio periodo a New York ed ero davvero impressionato da quanto avesse successo come musicista blues nella mia città natia. Prima di tornare a New York avevo anche pensato di trasferirmi a Boston. Naturalmente lì non conoscevo nessuno. Non sapevo nemmeno che la J. Geils Band fosse di quelle parti. Ma il richiamo di Washington era troppo forte. Bobby Radcliff aveva una band completamente integrata con due ragazzi neri e due bianchi. Un po’ come nella Butterfield Blues Band. Suonava in posti frequentati dagli hippies e in posti dove andavano gli afro americani più facoltosi. Andavo spesso a vederlo e lui mi invitava a suonare con loro qualche canzone. Per me era come un sogno. Quello era un momento storico, quello dei primi anni Settanta in cui tutto sembrava aprirsi a nuove strade sia a livello di integrazione che musicalmente. L’era di Paul Butterfield era in qualche modo passata. Intendo dire che la sua musica stava prendendo nuove direzioni. Era il momento in cui gruppi come i Thunderbirds stavano venendo fuori ma non li conoscevano in molti. Era un momento in cui sembrava che ci fosse un vuoto nella scena blues. Un vuoto che avrei voluto riempire.
Secondo me tu in quel periodo eri una specie di pioniere. Ascoltando i tuoi primi lavori ci si può rendere conto di tutto il lavoro che hai fatto per inserire un’armonica tipicamente blues in un contesto decisamente rock blues, pur mantenendo sempre un grosso legame con la tradizione del blues. Mi vengono in mente dischi di culto come “Jack & Kings” dove suonavate con Bob Margolin e Pinetop Perkins. Ti senti in qualche modo un precursore dell’armonica rock?
Ti rendevi conto in quegli anni di stare creando qualcosa di nuovo?
Più che altro quello che volevo fare era suonare la musica con cui sono cresciuto. Quello che non ho mai voluto fare è separare i generi musicali. Per me nello stesso show si possono suonare una canzone country, un blues o un brano rockabilly. Non vedevo e non vedo nessun problema in questo. Quello che cercavamo di fare a quei tempi era in qualche modo reinventare il rock ‘n’ roll che Bill Haley aveva creato cercando di mischiare la musica hillybilly con l’errebì. E in effetti il primo album dei Nighthawks si chiama appunto Rock ‘n’ roll perché per certi versi percorrevamo lo stesso cammino che avevano percorso Bill Haley e tutti gli altri. Per dirla tutta, all’inizio avevamo in mente di fare un album incentrato sul blues ma poi parlando fra noi saltò fuori che tutti volevamo diventare delle rock star. Eravamo piuttosto impressionati dal successo di band come gli Allman Brothers e la J. Geils Band. Ci sembrava che dopotutto noi stessimo suonando la stessa musica che suonavano loro. Suonavamo tutti Muddy Waters. Solo che lo suonavamo ad un volume altissimo.
Cercavamo di esprimere tutta la forza che quella musica aveva fin dall’inizio, tutta la vitalità che quel suono conteneva quando Muddy suonava il blues nei locali di Chicago negli anni Cinquanta. Per noi quella musica non era certamente un pezzo da museo. Quando ascoltavo i dischi di Muddy nel sottoscala della casa dei miei genitori non ho mai pensato che quella fosse musica da suonare con tranquillità sotto il portico di casa. C’era una sorta di aggressività in quelle canzoni che mi aveva colpito molto. Quella era musica suonata per persone che andavano nei locali armati di pistole e coltelli. Gente che ogni sera tornava a casa ubriaca. Stordita dal whisky e dalla musica. Anche durante le nostre prime esibizioni con i Nighthawks c’erano spesso persone armate e poco raccomandabili. Spesso c’era qualche rissa che si creava spontaneamente o per banali motivi sulla pista da ballo. E quindi la nostra musica esprimeva anche quella tensione. Adesso quei ragazzi sono diventanti grandi, hanno figli, nipoti, baby sitters, qualcuno di loro va in giro con un bastone, ma all’epoca erano piuttosto tosti. Per certi versi il fatto che si siano calmati per via dell’età non mi dispiace ma d’altro canto mi manca un po’ quell’intensità musicale, anche pericolosa per certi versi, che si respirava in quegli anni.
Com’è nato il vostro rapporto con Bob Margolin?
Bob Margolin fu in qualche modo la chiave che ci aprì le porte del mondo musicale. A quel tempo ogni band avrebbe voluto aprire un concerto di Muddy Waters. Era il sogno di tutti. Capitò così che ci chiamarono per suonare prima di Muddy in Virginia, Nord Carolina e a Washington. In Texas per Muddy aprivano i Thunderbirds, a Boston i Roomful of Blues. A tenere le fila di tutto quanto era Bob Margolin che come una specie di ambasciatore faceva in modo che i musicisti diventassero amici fra di loro.
Quanto è stato importante Muddy Waters per voi?
Quando qualche anno fa dopo aver letto la bella biografia di Muddy Waters scritta da Robert Gordon lo chiamai e gli dissi: “Dovresti aggiungere un nuovo capitolo in cui si dice che Muddy è qui ancora oggi attraverso i musicisti come me”.
Muddy Waters è stata la persona a cui si deve quello che qualcuno ha definito la blue wave, un movimento non troppo diverso dalla new wave che è scaturita dal punk. La grossa differenza tra noi e i punk rockers è che noi eravamo dieci anni più vecchi di loro e più legati a quelle che erano le nostre radici musicali.
Quello che ci accomunava è che anche noi rifiutavamo tutto ciò che era business, tutto ciò che non aveva nulla a che fare con la musica. Anche a noi l’unica cosa che importava era il suono delle nostre chitarre e l’energia che si creava durante le nostre esibizioni. Per certi versi il successo di gente come i Thunderbirds era legato al fatto che la gente si era stufata di tutti quei suoni preconfezionati.
Ciò che il pubblico voleva sentire era una musica semplice e diretta come quella di Muddy.Noi non eravamo certo i migliori, ma di sicuro siamo stati i primi.
Quando è uscito il primo disco dei Thunderbirds noi ne avevamo già incisi almeno quattro o cinque e ci conoscevano in tutti gli States. Una cosa che non molti sanno è che c’è stato un tempo in cui i Thunderbirds aprivano per i Nighthawks. E non solo loro ma anche Albert Collins e Buddy Guy. E Buddy Guy si arrabbiava tantissimo quando doveva aprire per noi (Mark ride sonoramente). Albert Collins pur aprendo i nostri concerti suonava come un dio. E quindi avendo tutti questi grandi musicisti che aprivano per noi le nostre responsabilità aumentavano. Dovevamo dimostrare di essere veramente bravi. Il nostro modello in quegli anni era naturalmente Muddy Waters ma anche e soprattutto la band di James Cotton che era composta da musicisti davvero straordinari. E poi Cotton aveva avuto la geniale intuizione di trasformare il vecchio blues in un potentissimo boogie woogie.
Perché il blues è diventato una lingua internazionale?
Il blues è davvero ovunque. E già da molto tempo. Secondo me fin dai tempi in cui all’inizio degli anni Sessanta tutti quei musicisti che a Chicago erano sconosciuti vennero in Europa con l’American Folk Blues Festival. Il fatto che gli europei amino particolarmente il blues è perché hanno perfettamente capito che quello è l’elemento fondamentale su cui si fonda tutta la musica moderna.
L’avevano capito anche Mick Jagger e Keith Richard il giorno che si sono incontrati la prima volta su un treno che li portava a Londra. Uno aveva sotto il braccio un disco di Chuck Berry e l’altro uno di Muddy Waters. E’ una lingua composta da pure emozioni. Tutti si sentono in qualche modo toccati da questa musica che esprime davvero i sentimenti che ci sono in ognuno di noi. Se penso a quando ascoltavo i dischi di Muddy Waters a palla sul giradischi dei miei genitori: all’epoca non capivo molto del significato del blues, che dentro quella musica potessero coesistere Dio e il diavolo. L’unica cosa di cui ero certo era che quella musica riempiva il mio cuore di passione e mi faceva stare bene.
Come vedi il futuro del blues?
Credo che il blues continuerà ad esistere. Mi è bastato vedere qualche sera fa uno strepitoso gruppo di venticinquenni brasiliani che accompagnava Kid Ramos e Lynwood Slim per capire che questa musica ci sarà sempre.
Quei ragazzi ci sanno davvero fare. Quando ho parlato con uno di loro ho scoperto che anche lui è un grande fan di Otis Rush. Pensa. Io e quel ragazzo:due musicisti che appartengono a due generazioni diverse e che sono nati in luoghi altrettanto diversi che conversano su uno dei più grandi chitarristi del blues. Tutto ciò è molto emozionante. Nel blues basta una sola nota per dire molto. E mi sembra che quei ragazzi lo abbiano capito. Abbiano capito che molte delle note che i chitarristi rock suonano alla fine non significano nulla. Steve Ray Vaughn suonava tante note ma lo faceva in maniera straordinaria. Molti dei suoi cloni odierni invece non trasmettono nulla. La stessa cosa si può dire di due miei concittadini, due grandi chitarristi come Roy Buchanan e Danny Gatton che riuscivano a mettere insieme una tecnica fuori dal comune con un grande cuore.
Sei d’accordo che chi non ama il blues ha un buco nell’anima?
Abbastanza. Anche se io l’avrei concepito in maniera diversa e cioè che se non senti il blues (nel senso di feeling n.d.r.) allora si che hai davvero un buco nell’anima.
RED DOG SPEAKS
Elvin Bishop
DELTA GROOVE DGPCD 138, 2010
Elvin Bishop è in giro da un sacco di anni. Lui e la sua chitarra, che lui chiama affettuosamente Red Dog,sono on the road dai primi anni sessanta. Insieme hanno militato in una delle formazioni più importanti di tutti i tempi: la Butterfield Blues Band. Nel 1976, una volta intrapresa la carriera solista, Elvin riuscì persino a scalare le classifiche pop americane con la sua “Fooled around and fell in love”. Ha suonato con tutti i grandi e lui stesso è considerato da molti e a ragione un’autentica leggenda del blues. La passione e la grinta che mette nel suonare la sua chitarra, la sua “cagnolina fulva”, è sempre la stessa. Che si tratti di una bettola di Chicago o del grande palco di un celebre festival Bishop dà sempre il meglio di sé. Questo disco non ha niente di speciale. Niente di speciale, se non il fatto che, lì dentro, sono contenute la perizia musicale e l’onestà artistica di un musicista che ha davvero fatto la storia del blues. L’album segue “The blues rolls” un album bellissimo e ricco di ospiti uscito nel 2008. Difficile ripetere un capolavoro come quello, ma tutto sommato anche “Red dog speaks” si difende bene. Nel frattempo Bishop è stato eletto artista dell’anno 2009 dall’ autorevole webzine Blues Blast. “Red dog speaks” è un disco estremamente vario: si va dal Chicago blues più ruspante, al rock blues energico e pimpante; a eleganti brani doo-woop, a coinvolgenti zydeco; a raffinati strumentali in cui assoluta protagonista è sempre e comunque la sua Gibson ES 45 del 1959. Tanti gli ospiti, sempre di tutto rispetto, anche in questo lavoro: John Nèmeth, Buckwheat Zydeco, Roy Gaines, Tommy Castro, Ronnie Baker Brooks e Kid Andersen. Come dite? Il brano che mi è piaciuto di più? Sicuramente la canzone che chiude l’album “Midnight hour blues” che mi ha addirittura commosso ricordandomi l’indimenticabile Bobby Charles.
Per saperne di più:
www.deltagroovemusic.com
www.elvinbishopmusic.com
100 MILES TO GO
Mitch Kashmar & The Pontiax
DELTA GROOVE DGPCD 140, 2010
Quando acquistai questo disco (allora era un classico LP), nell’ormai lontano 1989, restai folgorato. Erano un paio d’anni che avevo iniziato a suonare seriamente l’armonica e a quel tempo i miei acquisti erano prevalentemente orientati sul blues.
Non so come accadde. Non avevo mai sentito il nome di quel gruppo. L’unica cosa che sapevo era che venivano dalla California terra di grandi armonicisti come Rod Piazza, William Clarke, Mark Hummel e tanti altri. Forse mi colpì la foto di quei ragazzi in copertina: mi sembrava che avessero più o meno la mia stessa età e dalla loro espressione sembravano tipi che facevano maledettamente sul serio. Quando misi il piatto sul giradischi, già dal primo brano “Night Creeper” capii che quel disco sarebbe stato importantissimo per la mia formazione musicale. La band girava a mille e la voce e l’armonica di Mitch Kashmar svettavano su tutto. Non solo quell’armonicista suonava con gusto e stile, ma cantava anche come pochi. Quello shuffle d’apertura con quell’armonica pulita suonata sui registri acuti scuoteva la mia anima. La voce, le chitarre e una potente sezione ritmica facevano il resto. Gli anni passarono. Più di venti. Mitch Kashmar intraprese una felice carriera solista e i Pontiax si sciolsero. Non prima però di aver passato anni a jammare con grandi come William Clarke e Kim Wilson (grandi estimatori della band) e ad accompagnare leggende del calibro di Albert Collins, Luther Tucker, Lowell Fulson, Jimmy Whiterspoon, Pinetop Perkins, Pee Wee Crayton, Big Joe Turner e Eddie Cleanhead Vinson. Narra la storia che quel disco ben presto si esaurì e che nessuno pensò di ristamparlo. Tutti sembravano averlo dimenticato. Peccato. Ma in America e nel blues ogni tanto i miracoli succedono. Fu così che un fan della band, uno che all’epoca seguiva i Pontiax e Kashmar perché voleva anche lui diventare un armonicista blues, nel frattempo fondò un etichetta discografica, una label che oggi è tra le più rinomate nell’ambiente della musica afroamericana di qualità. L’etichetta, l’avrete già capito è la Delta Groove e quel fan dei Pontiax altri non era se non il deus ex machina dei questa prestigiosa label ovvero Randy Chortkoff. Grazie a lui quel fantastico disco è di nuovo disponibile. E ascoltato oggi mi fa lo stesso effetto di vent’anni fa. E’ un album fantastico, ben suonato, ben cantato e ben registrato. E poi Kashmar è uno scrittore di canzoni davvero bravo. La title track e “Gonna find someone new” da sole valgono l’acquisto.
Non mi dilungo oltre lasciando a voi il gusto di scoprire (come ho fatto io tanti anni fa) un grande disco. Ci sono anche due bonus tracks registrate apposta dalla formazione originale riunitasi per l’occasione. Se amate il west coast blues più verace e il sound dei primissimi Thunderbirds questo disco fa per voi.
Per maggiori informazioni:
www.deltagroovemusic.com
HE SAID SHE SAID
Peter Karp & Sue Foley
DIXIEFROG DFGCD 8691, 2010
Blues Revue, la più autorevole rivista blues al mondo, ha scritto a proposito di questo disco: “un’idea intrigante e unica realizzata da due artisti talentuosi e ispirati”. Vediamo quindi di conoscerli meglio questi due artisti che da uno scambio abbastanza fortuito di reciproche e-mail e lettere hanno saputo creare canzoni decisamente piacevoli che costituiscono l’ossatura di “He said she said”. Sue Foley, non ha bisogno di grandi presentazioni: cantante e chitarrista canadese è considerata dalla critica una delle migliori espressioni al femminile della musica blues e roots degli ultimi vent’anni. Sue ha collaborato live e in studio con artisti del calibro di B. B. King, Buddy Guy, George Thorogood, Tom Petty, Joe Cocker, Rufus Thomas, Pinetop Perkins, Joe Ely e Lucinda Williams. Influenzata da Billie Holiday, Memphis Minnie e T-Bone Walker, la Foley ha inciso undici dischi, di cui cinque con la leggendaria etichetta legata al mitico locale blues di Austin, Texas ovvero Antone’s, autentica mecca per gli appassionati di musica afroamericana. Musicista appassionata e sincera, Sue suona da anni un blues tinto di rock e di jazz tirando fuori un suono convincente dalla sua inconfondibile Fender Telecaster rosa shocking.
Peter Karp, originario del New Jersey è invece un bravissimo e misconosciuto cantautore chitarrista che diverse riviste americane non hanno esitato a definire uno dei musicisti più geniali e sottovalutati degli ultimi decenni. C’è gente che lo ha paragonato (e a ragione) a gente come John Hiatt, Jackson Browne e John Prine. L’unica differenza che c’è tra Peter e questi grandi è il fatto che nelle sue canzoni a farla da padrone è anche e soprattutto il blues. All’attivo Karp ha diversi album, alcuni per la Blind Pig, e ha suonato spesso anche su disco con Mick Taylor, celebre chitarrista dei Rolling Stones e ancor prima dei Bluesbreakers di John Mayall. Con lui Peter condivide l’amore per due grandi chitarristi del passato Freddie King e Elmore James. E a proposito di Blind Pig questo cd è uscito inizialmente per l’etichetta americana. Ora la Dixiefrog ne propone una versione europea con l’aggiunta di tre brani presenti anche in francese e di un video in studio in cui i due accompagnati da basso e batteria cantano il brano che funge da apripista per il cd. “Treat me right”, questo il titolo della canzone, è un bel rock blues con tanto di slide in cui spiccano la splendida voce roca di lui e la vocina sexy e adolescenziale di lei. A seguire “So far so fast”, una pregevole ballad elettroacustica che Sue canta con encomiabile maestria. Con “Wait” Karp ci propone un solido rock ‘n ‘ soul molto southern in perfetto stile Little Feat. “Rules of engagement” è un rockabilly blues in minore con un splendida slide e un ritmo contagioso. Più vicino alla tradizione “Hold on baby”, bel country blues con l’ottimo Jason Ricci all’armonica. Altri brani che vi segnalo sono “Danger lurks”, un rockabilly blues ancora con l’armonica di Ricci; “Ready for your love”, ballata roots che non sfigurerebbe nel repertorio di John Mellencamp; e “Valentine’s day” un Mississippi blues con il dobro in evidenza che evoca sin dal titolo il grande Tom Waits. Sono quattro le gemme che chiudono l’album: “Dear girl”, deliziosa ballata country, “Baby don’t go”, una rumba sospesa tra blues e jazz, “Regret”, piacevole ballata roots , e “Lost in you”, delicatissima e meravigliosa ballata folk jazz. Se vi piacciono John Hiatt e Ricky Lee Jones questo disco fa sicuramente per voi!
HE SAID SHE SAID
Peter Karp & Sue Foley
Questo il link al video della canzone che apre l’album:
www.suefoley.com
www.peterkarp.com
myspace.com/the hesaidshesaidproject
BRASILIAN KICKS
Lynwood Slim and The Igor Prado Band –
DELTA GROOVE DGPCD 141, 2010
Ho avuto la possibilità di ascoltare live questa band e vi assicuro che è un’autentica bomba. Se dico Brasile voi pensate subito alla bossa nova e al carnevale di Rio. Così come se dico Italia ci sarà qualcuno che dirà pizza e mandolino. Bene, dopo che avrete ascoltato questo cd per voi la parola “Brasile” potrebbe significare ottimo blues tinto di jazz suonato da una band giovanissima ma già estremamente matura, raffinata ed esplosiva. Quando la band brasiliana guidata dall’abilissimo chitarrista Igor Prado ha incontrato il più maturo Richard Duran in Arte Lynwood Slim tutti i componenti della band avevano meno di venticinque anni, ma già suonavano da far paura. Addirittura il saxofonista aveva da poco compiuto vent’anni e suonava come Illinois Jacquet, King Curtis e Louis Jordan messi insieme. Gli appassionati di West Coast Blues già conoscono Lynwood Slim bravo cantante, armonicista e flautista innamorato di Little Walter e di cool jazz. Al suo attivo una pluriennale carriera in cui ha suonato live e inciso al fianco di grandi chitarristi come Kid Ramos e Junior Watson. Quello che forse non tutti sanno è che Lynwood negli ultimi anni ha girato in lungo e in largo il nostro pianeta collaborando con valenti bluesmen in ogni parte del mondo. Nel nostro Paese ha suonato spesso con il bravo chitarrista umbro Maurizio Pugno non nuovo a collaborazioni. La Igor Prado band si è fatta le ossa accompagnando la crema dei musicisti West Coast nel loro Paese e crescendo concerto dopo concerto. Il cd offre una vasta gamma di stili che pur partendo dal blues californiano si estende con sorprendenti incursioni nello swing, nel Chicago blues, nel funky alla Buddy Guy e al Thunderbirds sound prima maniera. Il tutto suonato in maniera assolutamente appassionata e impeccabile. Il buon Lynwood Slim ci mette del suo cantando impeccabilmente tutti i brani e suonando qua e là la sua armonica e il suo flauto. Credo che sentiremo parlare ancora e presto di questa giovane ma già affermata band: il già citato Igor Prado alle chitarra, Rodrigo Mantovani al contrabbasso, Yuri Prado alla batteria, Denilson Martins al sax e Donny Nichilo al piano. Il futuro del blues non solo è in buone mani ma probabile che in futuro parlerà brasiliano, giapponese, italiano o finlandese. Ma non importa da dove arrivi la musica l’importante è che come sempre ci faccia sognare!
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