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MUSICHE DELLA TRADIZIONE EBRAICA A VENEZIA – LE REGISTRAZIONI DI LEO LEVI, Squilibri, libro e CD, 2018


25 Ottobre 2018 di Redazione-FB Lascia un commento

di Felice Colussi

Centoquarantaquattro fitte pagine con una ventina di foto in bianco e nero con due CD allegati, che, curate da Piergabriele Mancuso, ci narrano di come Leo Levi, dopo il suo incontro con Giorgio Nataletti, direttore del CNSMP, diede seguito al suo ambizioso progetto di una raccolta sistematica di testimonianze sulle tradizioni musicali delle comunità ebraiche italiane, nella consapevolezza che conservassero un patrimonio ricchissimo e composito di melodie a torto trascurato fino ad allora negli studi oltre che nelle campagne di ricerca sul campo.
In quell’incessante serie di viaggi che ha cadenzato tutta la sua esistenza, tra il 1954 e il 1959 Leo Levi si è recato a più riprese a Venezia per raccogliere, spesso solo dalla memoria dei più anziani, il repertorio del più antico ghetto ebraico del mondo, originariamente concepito quale luogo di residenza coatta per le comunità degli ebrei ashkenaziti e di rito italiano, ma diventato poi un microcosmo eterogeneo e variegato, luogo di incontro delle diverse anime della Diaspora e, a dispetto dei divieti della legge, anche di confronto tra ebrei e cristiani.
Di notevole interesse sia musicologico-rituale che storico, i brani contenuti nei due cd allegati al volume documentano parte del rito sinagogale veneziano, già all’epoca ridotto per lo più alla sola componente sefardita, sia ponentina che levantina, e una parte non irrilevante dell’antico rito ashkenazita, oggi completamente sparito.
Con la trascrizione dei canti dei due CD allegati al volume,  un significativo corredo fotografico e saggi di Walter Brunetto, Donatella Calabi, Piergabriele Mancuso e Francesco Spagnolo, uno strumento fondamentale per conoscere le tradizioni musicali e rituali dell’ebraismo italiano.
Per una maggiore comprensione dei contenuti di questa fondamentale pubblicazione riportiamo un significativo passo dell’introduzione.

La Repubblica Serenissima, il ghetto: vicissitudini storiche e tradizioni musicali dell’ebraismo veneziano
Sorta in uno dei momenti più critici della storia europea, con il declino e la caduta della complessa e vasta macchina politica a militare di Roma imperiale, Venezia fu per secoli il baricentro di una vasta, variegata e certo cangiante rete commerciale, uno dei principali punti di raccordo tra il Mediterraneo e l’Europa continentale, punto di snodo economico ma anche luogo di convergenza tra lingue e culture diverse. All’inizio del 1500 la Repubblica – già da tempo divenuta elitaria, seppur illuminata – si trovava nel momento di suo massimo fulgore, avendo ulteriormente sviluppato i suoi domini marittimi ed essendosi imposta come una delle principali potenze di terra, avendo completato da 1400 e 1500 una vasta opera di conquista del nord-est peninsulare. Uno zenit il cui raggiungimento e perfezionamento di lì a poco si trasformò nel primo tassello di una lenta ma inesorabile decadenza, terminata il 12 maggio del 1797 all’interno di una semideserta Sala del Maggior Consiglio a Palazzo Ducale. L’ebraismo veneziano nasceva ben prima del fatidico 1516 e non morirà nel 1797, anno primo di un lungo, accidentato, percorso di emancipazione. A differenza dei ghetti di altre città italiane soggette a piani di generale revisione dell’assetto urbano (i cosiddetti piani di “Risanamento” che di fatto sconvolsero la fisionomia degli antichi centri urbani, e che per la Firenze come per la Roma di ’800-’900, ad esempio, portò alla completa demolizione e sostanziale ridefinizione delle vecchie aree ebraiche), quello di Venezia rimase in buona sostanza uguale a se stesso (fatte salve la demolizione di alcuni edifici fatiscenti, o presunti tali, e l’edificazione di poche strutture moderne), senza mai perdere il ruolo di baricentro fisico, culturale e religioso dell’ebraismo lagunare. 
Cosa rappresenti il ghetto di Venezia oggi e come si possa e debba leggere l’esperienza storica del ghetto nella prima funzione di luogo di esclusione ma non di meno, e di fatto, anche quale strumento di integrazione (certo non nei termini di una dialettica tra pari), forse per meglio dire di “incorporamento”, di una minoranza religiosa sono domande da porsi. Del complesso processo di interazione tra le parti, sia all’interno dell’ecumene ebraica che tra questa e la società maggioritaria (anche questa solo all’apparenza monocromatica e uniforme), la musica è una straordinaria cartina di tornasole, manifestazione della temperie culturale, dei gusti e delle mode del tempo, disciplina artistica asemantica, aniconica, capace di superare barriere e steccati, di divenire – spesso anche senza che i suoi fruitori nei siano davvero coscienti – materia di fruizione comune. Ad eccezione, forse, del repertorio sacro, per eccellenza il campo almeno in teoria più impermeabile a forme di ibridazione e contaminazione, la musica degli ebrei, i suoni che accompagnavano la loro vita quotidiana, la celebrazione delle loro occasioni liete e meno liete, poteva esser fatta della stessa materia di cui si nutrivano i veneziani fuori del ghetto, così come quella di cui facevano uso i correligionari provenienti dalla Diaspora, dalla mitizzata Sefarad, passando per la Germania, la Francia, per arrivare a Levante: piyyutim e maftirim (poemi sacri) intonati su makamat del repertorio classico ottomano; corali di origine nord-europea che gli ebrei ashkenaziti mutuavano dal repertorio protestante, ma anche complesse forme di coralità, così simili a quelle del patrimonio marciano. 
Con la sua opera di mappatura, forse una delle maggiori e senza dubbio una delle più complete di una comunità nazionale nella Diaspora, Leo Levi cercava di strappare dalle reti dell’oblio scampoli di memorie collettive e personali. Oltre ai brani del repertorio sefardita – tutto sommato non così diverso da quello attualmente in uso – Levi riusciva a rintracciare segmenti del vecchio minhag1 ashkenazita, uno dei più antichi nella storia del ghetto veneziano. Quanto questi materiali aderiscano o meno al minhag tedesco delle origini ovviamente non è dato sapere. Si tratta in ogni caso di un materiale di straordinaria importanza, ad oggi totalmente inedito e non ancora posto al vaglio dell’analisi scientifica. Quello che si offre in questo volume non è che un risultato parziale e la fotografia di un momento interlocutorio della ricerca.

 

Le foto sono tratte dal volume.

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