È uscito da più di qualche mese, questo bell’omaggio collettivo a David Crosby, l’abbiamo lasciato decantare a lungo prima di parlarne. Avevamo paura di rimanere abbagliati dai ricordi: invece no, è un gran disco, segnatevelo!

di Gianni Giusti
Ormai è molto difficile che la nuova musica che noi della vecchia guardia ascoltiamo possa riservare delle sorprese interessanti e coinvolgenti. La nostra musica è quella della generazione che vive consapevolmente i tardi anni Sessanta e quella grandissima epopea degli anni Settanta, nella quale a mio parere sono state scritte alcune fra le pagine più importanti di tutta la storia della musica moderna.
Gli anni fra il 1968 e il 1975 ci hanno regalato una quantità immensa di album storici, quei vecchi LP che tanto aspettavamo con ansia (dopo averne letto su Ciao 2001 ed altre riviste del settore l’uscita) e con la paghetta e qualche lavoretto in qualche modo retribuito riuscivamo a comprare. Parliamo di Rock e Progressive inglese, di quella che in Italia chiamiamo Musica West Coast, dei cantautori tipo Bob Dylan e Paul Simon. E poi tutta la musica italiana cantautorale e quei favolosi gruppi prog che hanno regalato una visione un po’ diversa e più legata alle nostre tradizioni musicali rispetto ai cugini e maestri inglesi (vedasi l’allegra tarantella di E’ Festa della PFM).

L’occasione per rimanere a bocca aperta arriva da questo album intitolato Long Time Gone. Si tratta di un tributo al vecchio baffone David Crosby che ci ha lasciato quasi due anni fa. La sua influenza su generazioni di ragazzi è già molto grande fin dalla sua militanza con i mitici Byrds fino a quell’incomparabile supergruppo denominato Crosby Stills Nash e Young che fra mille contrasti, ripicche, scioglimenti e riaccostamenti ha dominato per una quindicina d’anni tutto il panorama musicale americano e non solo. Questi quattro artisti dotati di personalità molto peculiari, forti e dirompenti hanno fatto alcuni dischi storici ed imprescindibili in varie combinazioni fra di loro (in duo o trio e in quartetto oppure come solisti). Uno dei più grandi manifesti non solo della musica West Coast ma di tutta la musica moderna è sicuramente l’album If I Could Only Remember my Name di David Crosby, quello con il tramonto e il faccione del nostro amico in sovrappressione. Il disco ha raccolto un gotha di musicisti straordinari ed è scaturito da una serie quasi infinita di jam sessions suonate con i grandi personaggi della West Coast americana. Parliamo, oltre ai suoi compari Graham Nash e Neil Young, di Jerry Garcia dei Grateful Dead, Paul Kantner e Grace Slick dei Jefferson Airplane e poi Joni Mitchell e molti altri. Disco sicuramente molto stimolato dall’uso di diversi acidi lisergici e caratterizzato da atmosfere di grande sperimentazione e libertà espressiva. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta poi il nostro David va incontro a grossi problemi di salute e con la giustizia tanto da rimanere conseguentemente defilato rispetto all’evolversi della musica del periodo. Solamente dalla fine dello scorso millennio in poi riesce a tornare in carreggiata e a proporre dei dischi sempre più interessanti. È strano che buona parte della sua carriera musicale in quanto a intensità e creatività avvenga dai suoi sessanta-settant’anni in poi. Un buon periodo è anche quello a cavallo tra i due secoli in cui ha tratto molte energie dalla collaborazione con suo figlio naturale James Raymond e con il grande chitarrista Jeff Pevar. Ed è proprio da qui che partiamo perché il grande Jeff ha collaborato nella stesura di alcuni brani di questo disco tributo intitolato Long Time Gone che è stato registrato fra il 2023 e 2024 da un cast internazionale. I brani sono quattordici e raccolgono un lasso di tempo lungo quasi cinquant’anni dal primo disco di cui abbiamo parlato, cioè If I Could Only Remember My Name, che è stato abbastanza saccheggiato dai nostri musicisti, fino alle ultime esperienze degli anni Venti e quindi praticamente poco prima che se ne andasse. La direzione artistica è di Alberto Grollo, mentre la produzione è di Alessio Ambrosi, Francesco Lucarelli e lo stesso Grollo. Il primo brano si intitola Higher Place ed è un grande regalo che Jeff Pevar, uno dei suoi più significativi collaboratori di questi ultimi venticinque anni, ci fa: questa versione è una vera piacevolissima sorpresa, con un testo in verità già sentito nell’ultima esperienza di Crosby e Nash (dopo la quale Willie si dirà stufo di fare da badante all’amico Dave) ma con una musica nuova di zecca, su permesso del nostro stesso baffone. Jeff, solo con la sua lap steel guitar, fa una bellissima ballata, un po’ bluesy e un po’ funky acustico, che è il migliore inizio possibile per questo album. Il secondo brano inizia con una tromba in stile notturno, che richiama locali dello stile del Blue Note… è Almost Cut My Hair di Francesco Lucarelli con i suoi Rawstars (tipo Neil Young & Crazy Horse o Dylan con la Band…), cantato in maniera avvolgente e sensuale da Lisa Capuani. Uno dei più intriganti pezzi del disco, registrato in maniera impeccabile. Altro brano storico è sicuramente Laughing, pregevolmente interpretato dal chitarrista veneto fingerstyle Alberto Grollo: una rivisitazione rispettosa, ma abbastanza libera e più veloce (forse anche più moderna…) per un brano storicamente fondamentale, con un cantato adatto ad un coro stile Helplessly Hoping e un ottimo basso fretless di Luca Chioin. Da brividi veri l’intervento alla steel guitar di Jeff Pevar, che strizza l’occhio in maniera molto rispettosa e geniale alla vecchia versione di Jerry Garcia. Il brano era stato dedicato a George Harrison nel suo periodo indiano e stava a testimoniare la grossa differenza che talvolta esiste fra una prima impressione e la realtà. Quarto brano è Music Is Love, proposto dalla splendida quota rosa Jackie Perkins un’ affascinante americana trapiantata a Parma. Pare che il pezzo sia stato composto da Nash, Young e Mitchell mentre il nostro era momentaneamente assente, durante una delle mille session di musica libera, che girano ora sul web con il titolo di PERRO. Voce bellissima stile Joni Mitchell, bei cori, atmosfera soffusa di chitarre, cori, fretless e sax soprano. Il quinto brano è Triad (secondo una leggenda causa dell’allontanamento di Crosby dai Byrds per contenuti un po’ troppo espliciti a un triangolo amoroso), e l’arrangiamento è autentica genialata raccontata da quella mente eccelsa che è il milanese Gg Cifarelli. Un funky lento ed intenso, una voce a metà strada fra Al Jarreau e Barry White, degli assoli stratosferici come lui sa fare. Varrebbe anche da solo l’acquisto. Brusco cambio di atmosfera e di concezione spazio-tempo: le vecchie volpi musicali Michele Gazich e Andrea Del Favero, famosi per le loro attività nell’ambito della musica colta etnica, ci trasportano in pieno Medioevo con violini, viola e organetto per raccontarci con Orleans le più importanti cattedrali francesi. Arrangiamento super raffinato, coinvolgente, ancestrale. Il brano seguente arriva da uno dei dischi (in verità non molto noti ma, anche per questo, preziosi) prodotti insieme all’amico Nash, e il titolo è Carry me. Atmosfere familiari, di lui da ragazzo, di una sua vecchia fiamma, di sua madre… un inizio con la voce di una giovane donna che gli chiede di essere accompagnata, appunto, per il mondo. Bella prestazione di Andrea Luciani in un ambito felicemente acustico, con Alberto Grollo insolitamente al pianoforte. Arriviamo al settimo brano, la dolcissima Guinnevere, che il nostro eroe ha voluto dedicare a ben tre donne… unico interamente strumentale, magistralmente suonato dal grande chitarrista inglese Clive Carrol, forse non notissimo ai più, ma fondamentale per gli amanti della chitarra acustica. Passiamo al brano forse più complicato e controverso di tutta la produzione crosbyana, quella Deja Vu che è quasi impossibile da interpretare: l’eroe di turno è Giancarlo Masia, ben coadiuvato fra gli altri da Stefano Santangelo (artista bluegrass) con un interessante intervento di mandolino. Altro pezzo, una più recente ed impegnativa Morrison della Carry On Band, capitanata da Max Piran alla voce e John Santoro alla pedal steel guitar. Il brano è stato composto dal nostro Crosby insieme al figlio James Raymond, che qui molto felicemente collabora al pianoforte. L’undicesima canzone è Anything At All, interpretata in maniera molto delicata e raffinata da Joe Slomp e Stefano Micarelli, due vecchie conoscenze della musica intelligente romana, con gran bell’assolo all’interno. Dalla capitale politica a quella economica, da Roma a Milano, con The Lee Shore degli Smallable Ensemble, grandi esecutori di Beatles e dintorni, diretti dal valente bluesman Alex “Kid” Gariazzo, per un’atmosfera felicemente sognante con un ’intervento insolito alla fisarmonica di Roberto Bongianino. Tredicesimo brano, il più recente di tutti, suonato da un ensemble tutto sardo guidato del giovane virtuoso della chitarra acustica Gavino Loche. Il titolo è Vagrants of Venice in cui il nostro racconta lo sbigottimento di un turista davanti ai mille splendori e alle contraddizioni della nostra impareggiabile città lagunare. Last but not least è il grande Maurizio Bettelli (fra le altre cose traduttore ufficiale in italiano di tutti i brani di Woody Guthrie) che interpreta la bellissima ed intima Paint You a Picture in maniera molto rispettosa e intensa. Un bel modo di finire il disco e avere voglia di ricominciare ad ascoltarlo. Cos’altro dire ancora? Che come ulteriore chicca è arrivato il feticcio, l’amato 33 giri che per motivi di spazio fisico ha potuto (drammaticamente) contenere tutte le canzoni. A bilanciare tutto ciò c’è la presenza su tutte le piattaforme web, anche con alcuni bonus che nel frattempo si sono aggiunti sull’onda dell’entusiasmo che questo disco, che definirei sicuramente storico, ha generato. Il CD e il vinile sono uscite per Folkest Dischi e possono essere reperiti in tutti i negozi di dischi (disytribuito dalla I.R.D.) e, se non presente, tranquillamente prenotato. Lo si può trovare anche su shop.editeventi.com.

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